Corriere della Sera, 25 giugno 2015
Tocqueville, de Gaulle, le patatine: l’amicizia Francia-Usa ha retto a crisi più serie di questa sullo spionaggio. Da Vichy all’uscita francese dalla Nato, tra Parigi e Washington alla fine prevale sempre l’interesse
Nelle scorse settimane una nave francese del XVIII secolo, l’Ermione, ha gettato l’ancora nel porto di Yorktown, in Virginia. È la esatta replica di quella che trasportò nel 1781, al comando del marchese Lafayette, le truppe francesi che avrebbero combattuto a fianco dei ribelli americani contro il corpo di spedizione inviato da Giorgio III, re d’Inghilterra, al di là dell’Atlantico.
La scelta è caduta su Yorktown perché la città ha dato il suo nome alla battaglia che decise, nel 1781, le sorti della guerra. La vittoria fu dovuta a un eccellente coordinamento fra le forze di George Washington, quelle di Lafayette e del generale Rochambeau, e la flotta francese comandata dall’ammiraglio De Grasse. Vi sono stati festeggiamenti, parate e brindisi all’amicizia fra i due Paesi. In questi giorni invece la Francia e gli Stati Uniti sono ai ferri corti. Un guastafeste, WikiLeaks, ha pubblicato documenti da cui risulterebbe che la National Security Agency ha la cattiva abitudine di intercettare le conversazioni telefoniche dei presidenti francesi, da Jacques Chirac a François Hollande passando per Nicolas Sarkozy. I servizi americani non hanno confermato, ma non hanno categoricamente smentito. Hollande non può essere meno arrabbiato della cancelliera Merkel quando apprese che le intercettazioni americane avevano preso di mira il suo cellulare. Ma l’uomo politico che avrebbe maggiori ragioni per lamentarsi è Nicolas Sarkozy. Quando divenne presidente nel 2007 annunciò che la Francia sarebbe rientrata nell’organizzazione militare del Patto Atlantico, da cui era uscita all’epoca del generale De Gaulle, e trascorse un incantevole fine-settimana nella residenza estiva del presidente Bush. Quella degli scorsi giorni è una crisi destinata a guastare i rapporti fra i due Paesi?
Non ne sono sicuro. Le relazioni tra la Francia e gli Stati Uniti sono una continua successione di alti e bassi. Quando il tempo volge al sereno e le due nazioni hanno interesse ad andare d’accordo, Lafayette e Tocqueville diventano la citazione obbligata di brindisi e discorsi: il primo per il valido aiuto dato agli americani in un momento cruciale della loro storia, il secondo per avere colto nella Democrazia in America i caratteri interessanti e virtuosi di uno Stato che aveva nel 1835 e nel 1840, quando apparvero i due volumi dell’opera, pochi decenni di vita. Da allora il pendolo continua a oscillare. I francesi accolsero entusiasticamente l’ingresso degli Stati Uniti nella Prima guerra mondiale, ma storsero la bocca quando appresero che il generale Pershing, comandante del corpo di spedizione americano, non si sarebbe sottoposto agli ordini del maresciallo Foch. Ai francesi non piacque che il governo degli Stati Uniti, dopo la fine della guerra, chiedesse il rimborso dei prestiti concessi dalle banche americane durante il conflitto. Forse che la Francia non era, fra gli Alleati, il Paese che aveva maggiormente pagato col sangue il prezzo del conflitto?
Poco più di vent’anni dopo, quando era scoppiata un’altra guerra, a molti francesi non piacque che gli Stati Uniti riconoscessero il governo del maresciallo Pétain e tenessero un ambasciatore a Vichy. La scelta sarebbe stata forse più accettabile se non fosse noto che il presidente Roosevelt non amava il generale De Gaulle. Era infastidito dalla sua arroganza (i francesi l’avrebbero definita «orgoglio») e non avrebbe concesso alla Francia una zona di occupazione in Germania e in Austria, dopo la fine della guerra, se Churchill, interessato all’equilibrio delle potenze, non avesse speso una buona parola per i francesi.
Gli interessi, tuttavia, prevalsero ancora una volta sulle permalosità e sulle ubbie. Non era possibile dimenticare che la Francia era stata liberata, in ultima analisi, dallo straordinario spiegamento di uomini e mezzi che gli Stati Uniti avevano gettato sulle spiagge della Normandia. Tutti gli Alleati, compresi i francesi, avevano fatto eroicamente la loro parte; ma era la potenza americana che aveva maggiormente pesato sul piatto della bilancia. Fu questa la ragione per cui, quando l’Unione Sovietica sembrò rappresentare un nuova minaccia, la Francia firmò il Patto Atlantico e fece parte della sua organizzazione militare. Negli anni Cinquanta, tuttavia, il pendolo cominciò nuovamente a oscillare dall’altra parte. Quando l’esercito francese in Indocina, fra il 1953 e il 1954, dovette sostenere l’urto dei vietminh del generale Giap, gli Stati Uniti fornirono aiuti modesti. Due anni dopo, nel 1956, quando il presidente Eisenhower intimò al corpo di spedizione franco-britannico di abbandonare il canale di Suez, i francesi, se gli inglesi non avessero deciso di obbedire, erano pronti e restare. Tutte queste «umiliazioni» vennero al pettine quando il generale De Gaulle tornò al potere nel maggio 1958. In pochi anni la Francia uscì dall’organizzazione militare del Patto Atlantico, costrinse l’organizzazione a sloggiare da Fontainebleau, accelerò la costruzione della bomba atomica, riconobbe la Cina comunista, deplorò la guerra americana in Vietnam e gridò a Montreal, la grande città francofona del Canada, «Vive le Québec libre»: una sequenza di gesti, atteggiamenti e decisioni che gli americani considerarono ostili.
Il momento migliore di quegli anni fu il viaggio a Washington di una signora italiana, la Gioconda, che entusiasmò i francesi e forni l’occasione per altri cenni ai due numi titolari delle relazioni franco-americane: Lafayette e Tocqueville. Ma l’episodio era dovuto ai buoni rapporti che André Malraux, ministro della Cultura, intratteneva con Jacqueline Kennedy, moglie del presidente americano.
Le relazioni migliorarono dopo le dimissioni del generale presidente nel 1969 e il suo erede, Georges Pompidou, visitò gli Stati uniti nel 1970. Ma il viaggio, turbato da qualche manifestazione, non fu particolarmente caloroso. Salto altri bisticci e vengo a una crisi che ha avuto le caratteristiche di una tragicommedia. Quando il presidente George W. Bush, nel 2003, decise di invadere l’Iraq e il problema venne in discussione al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, il ministro degli Esteri francese, Dominique de Villepin, fece un vibrante discorso contro la guerra. Anche la Germania del cancelliere Gerhardt Schröder era contraria, ma l’opinione pubblica americana fu indignata soprattutto dalla Francia ed ebbe reazioni piuttosto isteriche. Quando leggemmo che la ritorsione avrebbe colpito le patate fritte alla francese e che le french fries sarebbero divenute «liberty fries», capimmo che non poteva essere una cosa seria. È possibile che lo stesso possa dirsi, fra qualche settimana, della crisi sulle intercettazioni.