la Repubblica, 25 giugno 2015
Ha scelto la periferia di Capannelle per annunciare il suo addio al Pd: il gesto antirenziano dell’ex comunista Fassina. Basta vedere il video per capire che il deputato era ormai incompatibile con il segretario. Non ha mai accettato le scenografie giovanilistiche imposte dal nuovo corso
Il cielo bianchiccio sopra di lui. Il contenitore dell’immondizia alle sue spalle. Davanti, sul tavolo montato per la strada, la bandiera del Pd come una tovaglia. Svolazzante. Bottiglie aperte di acqua minerale e bicchieri di carta. Ogni addio ha la sua estetica. Quello di Fassina, a Roma Capannelle, offre uno sfondo di lampioni troppo alti rispetto alle case, automobili che passano indifferenti, negozi con le saracinesche chiuse, un’insegna reca la scritta «Frutteria italiana», più in là si intravedono i condomini color mattoncino e i balconi con tende a strisce della periferia romana.
Basta guardare il brevissimo video del suo ultimo comizio forse più popolare e anni 70 che morettiano – per rendersi conto che da tempo ormai Fassina era del tutto incompatibile con il renzismo. Forse solo il vento, quel soffio antico che smuove le bianche bandiere, riscatta un po’ il desolante panorama entro cui si colloca e va in scena il più annunciato, educato e prevedibile congedo. Il flebile dietrofront del giorno dopo, così come la conferenza stampa alla Camera, non cambiano il contesto, anzi ne confermano la più scontata immobilità.
In tempi post-ideologici ed eminentemente visivi come questi di oggi l’osservazione a distanza fa premio sulle ragioni politiche, per cui risulta difficile stabilire l’esatto grado di separazione consumatosi sul versante della sinistra dem; né in tutta onestà pare oggi opportuno andarsi a rileggere il legnoso testo della mozione pro-Bersani che nel 2013 Fassina contribuì a redigere con l’accattivante titolo «Fare il Pd» infiorettandolo di misteriosi corsivi e formule retoriche d’antan, comprese «riflettere a fondo» e «rilanciare un grande soggetto».
Così, anche se la fisiognomica comporta scontati rischi e forzatissimi abbagli, a ben vedere sembra il volto stesso di Fassina che proprio non si concilia con quello degli eroi imprenditoriali e finanziari della Leopolda, così come più in generale con lo stile «Rignano da bere» o con l’arietta un po’ arrogantella del «partito dei carini».
Senza mancargli di rispetto, questo deputato di 49 anni, già giovane turco, appare più un inconfondibile residuato del Pci, con le sue oneste passioni, che un furbo e/o risentito socio della «Ditta», come molti della minoranza si beano di chiamarla con quel nomignolo così commerciale.
A pensarci bene, pure troppo tempo era rimasto nel Partito di Renzi. Quando quest’ultimo in una conferenza stampa disse l’ormai famoso «Fassina chi?», si può pensare che a colpire il povero Stefano sia stato prima il sorrisetto compiaciuto con cui il giovane leader aveva accompagnato la battuta e poi la personalissima morale che da quella vicenda aveva tratto: «Se un viceministro si dimette per una battuta, mi dispiace per lui; se è per motivi politici concluse Renzi – grande rispetto».
In realtà su nessun riguardo Fassina ha potuto contare da allora nel suo partito. Nè lui risulta aver mai apprezzato le scenografie giovanilistiche o le consuetudini che con frettolosa prepotenza venivano imposte a un sempre più mansueto gruppo dirigente.
Pochi giorni dopo le sue dimissioni la segreteria del partito venne convocata a Firenze, Maria Elena Boschi si presentò in soprabito rosso, sorriso radioso e stola di pelliccia al collo. Eataly provvide a rifocillare i presenti con un griffatissimo snack packed lunch e insomma, anche senza tirare in ballo la scienza più o meno ermetica dei segni, era chiaro che per Fassina non c’era più tanto posto da quelle parti.
E infatti. Ma per un anno e mezzo è rimasto. Troppo tempo, e non deve essere stato semplice per lui, così retrò, tra lodi al marketing della Coca cola e abolizione dell’articolo 18, tweet tipo «abbiamo vinto due a zero, palla al centro» e colpi di mano sull’Italicum. Sempre più convinto della china pericolosa impressa da Renzi, dunque sempre più isolato. L’unico, insieme con Civati, a pronunciare ad alta voce quello che un po’ tutti pensano o si dicono tra loro in segreto: che nel Pd vige «un tasso di conformismo superiore a quello del Partito comunista nord coreano».
Una volta osò rifiutare un incontro con Boschi e, serio com’è, spiegò che doveva andare allo zoo con il figlio. Era vero. Lì concesse anche un’intervista. Alle sue spalle, in lontananza si scorgeva una giraffa: l’animale che Togliatti evocava per indicare la virtuosa diversità del Pci.