La Stampa, 25 giugno 2015
Ma questa sentenza della Consulta accresce la difficoltà dei cittadini a capire come funzioni la legge. Se bloccare le retribuzioni degli statali è illegittimo, significa che il Parlamento eletto dal popolo non ha pieno diritto a stabilirle. La decisione uscita ieri dal palazzo della Consulta evita effetti devastanti sul bilancio, ma contiene un messaggio che non è buono per il nostro vivere civile
La sentenza della Consulta accresce la difficoltà dei cittadini a capire come funzioni la legge. Se bloccare le retribuzioni degli statali è illegittimo, significa che il Parlamento eletto dal popolo non ha pieno diritto a stabilirle.
Eppure nulla vietava ai lavoratori insoddisfatti di scioperare per ottenere paghe migliori.
I cittadini leggono nella Costituzione, all’articolo 36, che «il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro» e presumibilmente ne sono contenti. Poi si guardano attorno, in questi tempi di disoccupazione, di lavoro precario, talvolta di riduzioni di stipendio per conservare il posto, e si pongono delle domande.
Perché gli statali dovrebbero godere di un diritto al rinnovo del contratto, se altri lavoratori non ce l’hanno? Oltretutto il dialogo tra amministrazione e sindacati non era stato mai interrotto, si negoziava su accordi integrativi e su questioni di vario tipo. E se il Paese nel suo insieme, purtroppo, non è diventato più ricco negli ultimi anni, perché ad alcuni dovrebbe essere dato di più?
Le norme dichiarate illegittime erano state votate, in varie versioni, da due Parlamenti di diversa composizione politica, proposte da governi con maggioranze differenti. Volevano rimediare a un dislivello chiaro: prima della grande crisi, gli stipendi degli statali erano cresciuti assai più di quelli dei dipendenti privati.
Nemmeno è chiaro come mai l’articolo 81 – quello che impone allo Stato di non spendere soldi che non ha – valga in questo caso, per evitare effetti retroattivi, mentre sembrava non valesse per la sentenza di maggio sull’adeguamento delle pensioni al costo della vita. Certo questa volta le somme in ballo sarebbero state parecchio più grosse, ma che c’entra con il diritto?
È proprio difficile capire: il cruciale articolo 3, secondo cui tutti i cittadini solo uguali davanti alla legge, in una sentenza della Consulta di due mesi fa è stato invocato per dichiarare illegittima una norma del Codice della strada sui controlli radar. Uguaglianza? L’impressione dei profani è che chi ha soldi per gli avvocati scampi alle multe per eccesso di velocità.
Non giovano oggi le dietrologie su presunti dispetti al governo. Si tratta di questioni serie. Sulle sentenze in materia di retribuzioni non nasconde i suoi dubbi un autorevolissimo ex giudice costituzionale, Sabino Cassese. Nell’insieme, si rafforza l’impressione di tutto un sistema giuridico-amministrativo richiuso su se stesso, forse nemmeno cosciente delle conseguenze di ciò che fa.
Nella sua storia, la Corte Costituzionale italiana ha avuto grandi meriti. Ha posto rimedio a errori della politica, ha allargato l’interpretazione di quali siano i diritti dei cittadini. Però nell’ultima fase sembra risentire anch’essa di un disfacimento in cui data l’oscurità delle leggi è sempre più ampia l’incertezza su chi abbia il potere di decidere che cosa.
Se il senso delle norme dipende dai pochi che hanno il potere di interpretarle, se la loro applicazione è affidata a pronunce dove c’è un largo margine di discrezionalità, se esistono privilegi inattaccabili, i cittadini non sono incentivati a comportarsi bene. Alle vie maestre della democrazia – il voto, la protesta – o a quelle del mercato – far bene il proprio lavoro – si sostituiscono tortuose vie traverse.
Il blocco dei contratti per gli statali probabilmente non sarebbe durato a lungo in ogni caso. La sentenza uscita ieri dal palazzo della Consulta evita effetti devastanti sul bilancio (sarebbe occorso aumentare non poco le tasse); ma contiene un messaggio che non è buono per il nostro vivere civile.