la Repubblica, 24 giugno 2015
Sigarette e letteratura, come alcol e letteratura. Gesti e tic dei romanzieri secondo Herman Koch. «C’è stato un tempo, molti anni fa, in cui ero sicuro che se avessi smesso di fumare non avrei mai più potuto scrivere. Non si trattava solo del fumo stesso o della nicotina, era soprattutto il momento in cui ci si abbandona all’indietro, sullo schienale»
Una volta c’era la sigaretta. C’è stato un tempo, molti anni fa, in cui ero sicuro che se avessi smesso di fumare non avrei mai più potuto scrivere. Non si trattava solo del fumo stesso o della nicotina, era soprattutto il momento in cui ci si abbandona all’indietro, sullo schienale. Una pausa – meritata o meno. Guardavo il foglio nella macchina da scrivere, nel migliore dei casi c’erano già scritte alcune frasi, magari anche mezzo paragrafo. Tiravo fuori una sigaretta dal pacchetto. Oppure, ancora meglio: ne rollavo una. Già solo l’operazione: la cartina fra le dita, prendere un po’ di tabacco e poi impastarlo, leccare
la cartina – tutte operazioni accomunate principalmente dal fatto di appartenere al campo del non-scrivere. Del prendere le distanze. Uno scrittore che fumava durante una pausa di scrittura aveva qualcosa fra le mani. Uno scrittore che non fumava, non faceva letteralmente niente.
Questo accadeva ai tempi in cui tutti gli scrittori fumavano. Albert Camus senza sigaretta è come un film in cui le scene migliori (leggi: le più piccanti) sono state tagliate dalla censura. E gli scrittori bevevano. Così come oggi fanno tutti jogging. Non soltanto quegli scrittori che hanno rischiato di soccombere all’alcol (la celebre lista di nomi: Hemingway, Bukowski, Carver, Cheever), no, tutti gli scrittori.
Molto tempo fa la mia giornata tipo era così: mi alzavo tardi, infilavo un foglio bianco nella macchina da scrivere e accendevo una sigaretta. A metà mattina, inizio pomeriggio, battevo qualche frase, magari anche mezzo paragrafo. Poi mi bloccavo. E per di più quelle poche frasi e quel mezzo paragrafo non erano venuti bene come dovevano.
Poi si facevano le tre, le tre e mezzo. Alle quattro meno dieci aprivo una bottiglia di whisky e mi riempivo un bicchiere. Scrivevo un’altra frase. Ancora un bicchiere, e un altro ancora. Ormai ero arrivato in fondo al primo foglio e ne infilavo uno nuovo nella macchina da scrivere. Ancora una pagina. E ancora mezza.
Il giorno dopo rileggevo quello che avevo scritto. «Non scrivo mai sotto l’influsso di alcolici», sentivi affermare la maggior parte degli scrittori. «Che poi il giorno dopo è tutto da buttar via». Ma io rileggevo le mie pagine e lo sapevo subito: senza alcolici non ci sarei mai riuscito. Da sobrio non mi sarebbe mai venuto così bene.
Molto tempo fa in me non si smuoveva niente senza un drink – o una sigaretta. Oggi faccio parte dei tipi freschi che si alzano presto, non fumano e fanno jogging. Ma a volte mi manca. Il proibito. La sregolatezza.
La cosa più importante delle liste con consigli di scrittura, libri sul mestiere scritti da altri scrittori, e interviste con scrittori sul loro metodo di lavoro e sull’organizzazione della giornata, in fin dei conti è la sensazione di non essere soli.
Ogni scrittore scrive diversamente. Ogni scrittore scrive uguale. Sono vere entrambe. E quindi ecco qui sotto la mia personale lista di perle di saggezza. E forse anche qualche consiglio che potrebbe tornare comodo a ogni scrittore uguale a me, se non fosse che fa così già da anni.
- Diffida di ogni scrittore che sostiene che scrivere sia soprattutto tagliare. Mostrati interessato quando dice di aver ridotto un manoscritto di ottocento pagine a un racconto di otto, ma poi prova a svignartela al più presto verso il tavolo degli stuzzichini.
- Continua ad ascoltare con interesse anche lo scrittore che dichiara di scrivere mediamente quattordici-sedici ore al giorno. Poi prova a metterlo in contatto con quella donna che adora passare l’aspirapolvere e lavare le finestre quattordici ore al giorno, per poi andare a fare la spesa per un genio.
- Sorridi comprensivo al collega che dice che tutto si riduce a «Kill your darlings». Era vero un tempo, oggi i darlings sono il meglio che scriverai in tutta la tua vita. Mettili accanto al tuo manoscritto e prova a elevare il resto al loro livello. Dopodiché ascolta il tuo redattore quando ti dice che senz’altro eri ispirato, ma che questo darling ostacola parecchio la storia.
- Prova a non avere hang-ups. O comunque meno hang-ups possibile. Sono altrettante scuse per non mettersi al lavoro. Quindi niente stanze oscurate e insonorizzate, rumori di bambini, laptop senza connessione, non poter scrivere al tavolo in cucina/in camere di albergo.
- Fermati per tempo (dopo un’ora e mezzo), fermati in un momento in cui sai come proseguire l’indomani, per il resto non pensare più al libro, dimentica che cosa hai scritto, fai altre cose – things to restore the ego, le chiamava Hemingway: lui andava a pescare squali o a correre fra i tori a Pamplona (o a bere). Il giorno dopo rileggi con sguardo fresco la pagina e mezzo.
Ogni scrittore che si riconosce in quanto sopra, può chiamarmi oggi stesso. Gli altri scrittori continuerò ad ascoltarli con interesse – ma poi mi ritroverete sempre al tavolo degli stuzzichini.
(Dettagli tecnici, per chi voglia provarlo: per scrivere quanto sopra sono bastati mezzo pacchetto di Gauloises senza filtro e cinque bicchieri di vodka ghiacciata. Domani mattina rileggere da sobrio).
©Herman Koch 2015
(Traduzione di Dafna Fiano)