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 2015  giugno 23 Martedì calendario

Nigger, la parola vietata che solo i neri possono pronunciare, in un America meno razzista che però non riesce a liberarsi dalla maledizione dello schiavismo

Il presidente ha usato una parola, nigger (il dispregiativo in italiano tradotto “negro”) che io e i miei amici bianchi facciamo fatica a formare con le nostre labbra e pronunciare ad alta voce. È a tal punto contaminata da una lunga storia di odio razziale che utilizziamo sempre l’eufemismo the n-word (la “parola- n”). Per delle ragioni paradossali, tra le persone di colore è considerato lecito usarla – giovani neri, soprattutto quelli più poveri, si rivolgono la “n-word” tutti i giorni in modo amichevole – come se impadronirsi di una parola che ha creato così tanto dolore la privasse del suo potere. Ma per una persona come me, bianco, liberal, del nord e cresciuto in un momento determinato negli Usa, crea molto disagio, quasi come un pugno allo stomaco.Ma il significato delle parole cambia molto. Sono rimasto un po’ turbato rileggendo Il buio oltre la siepe, dal numero di volte che ricorre la “n-word,” pur essendo uno degli appelli più forti del periodo per i diritti civili dei neri. Viene usato non solo dai personaggi razzisti ma anche dalla narratrice, una ragazza di otto anni che la usa senza malizia. A pensarci, ha senso. Il libro è stato scritto negli anni ‘50 ed è ambientato nel 1937 quando sicuramente la “n-word” era una parte normale del vocabolario di quasi tutte le persone del Sud, tranne le più illuminate che avrebbero usato i termini colored, oppure negro. Che era la parola che ricorre in tutti i discorsi di Martin Luther King, ma oggi è considerata antiquata e un po’ paternalistica.Il punto di Obama è proprio questo. Abbiamo fatto progressi nel nostro linguaggio, ma sotto la superficie si nascondono molte forme di razzismo non dichiarate, nella convinzione (errata) che i neri commettano la maggior parte dei delitti o ricevano gran parte dell’assistenza pubblica. La rivoluzione linguistica, a mio avviso, è servita a qualcosa: ha reso il razzismo aperto inaccettabile, ma ha anche creato l’illusione di aver cancellato il problema.
Alexander Stille
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L’America è una nazione molto meno razzista di un tempo, e non sto parlando del fatto, che pure resta straordinario, che ci sia un afroamericano alla Casa Bianca. Il razzismo istituzionale puro e semplice che la faceva da padrone finché il movimento per i diritti civili non mise fine al segregazionismo ormai non esiste più, anche se forme di discriminazione più sottili persistono. In alcuni casi sono cambiati in modo eclatante anche gli atteggiamenti individuali: per esempio, ancora in tempi recenti come gli anni ‘80, metà degli americani era contraria ai matrimoni interrazziali, una posizione sostenuta oggi solo da una minoranza trascurabile.
Eppure l’odio razziale rappresenta ancora una forza potente nella nostra società, come abbiamo visto con orrore proprio in questi giorni. E mi dispiace dirlo, ma le divisioni razziali continuano a essere un elemento dirimente della nostra vita politica, la ragione per cui l’America rappresenta un caso unico tra le nazioni avanzate per la severità con cui tratta i meno fortunati e per il fatto di essere disposta a tollerare che i suoi cittadini soffrano inutilmente. Ovviamente, dire una cosa del genere suscita subito reazioni irate a destra, perciò proverò a tenere la mente fredda e procedere con cautela, citando alcuni dei numerosissimi dati che dimostrano inequivocabilmente la persistente centralità della razza nella vita politica del nostro paese.
La mia visione del ruolo della razza nel cosiddetto “eccezionalismo” americano si basa in buona parte su due saggi accademici. Il primo, del politologo Larry Bartels, ha analizzato l’allontanamento della working class bianca dal Partito democratico, un fenomeno reso celebre dal libro di Thomas Frank
What’s the Matter with Kansas?: Frank sosteneva che la destra, sfruttando i temi culturali, riusciva a convincere i proletari bianchi a votare contro i propri interessi. Ma Bartels ha dimostrato che questo fenomeno non aveva portata nazionale: era limitato esclusivamente agli Stati del Sud, dove la popolazione bianca era passata massicciamente dalla parte dei repubblicani dopo l’approvazione della legge sui diritti civili e l’adozione, da parte di Richard Nixon, della cosiddetta Southern strategy. A sua volta, questo spostamento dell’elettorato del Sud è stato l’elemento che ha determinato lo spostamento a destra dell’asse politico americano dopo il 1980. È stata la questione razziale a rendere possibile il reaganismo. E ancora oggi i bianchi del Sud votano a stragrande maggioranza repubblicano, con punte dell’85 o addirittura del 90 per cento nel profondo Sud.
Il secondo saggio, degli economisti Alberto Alesina, Edward Glaeser e Bruce Sacerdote, era intitolato Perché gli Stati Uniti non hanno uno Stato sociale all’europea?. Gli autori (che tra l’altro non sono particolarmente di sinistra) esploravano una serie di ipotesi, ma alla fine giungevano alla conclusione che la razza giocava un ruolo centrale, perché in America i programmi per i bisognosi spesso e volentieri vengono visti come programmi che aiutano “quelli là”: «All’interno degli Stati Uniti, la razza è l’elemento che maggiormente condiziona il sostegno per lo Stato sociale. Le tormentate relazioni razziali degli Stati Uniti sono senza alcun dubbio una delle ragioni principali dell’assenza di uno Stato sociale».
Questo saggio era stato pubblicato nel 2001 e ci si potrebbe domandare se da allora qualcosa è cambiato. Sfortunatamente, la risposta è che no, non è cambiato nulla, come si vede chiaramente se si va a guardare quali Stati stanno implementando – o stanno rifiutandosi di implementare – la riforma sanitaria di Obama.
Per quelli che non hanno seguito la questione, nel 2012 la Corte suprema ha concesso ai singoli Stati la facoltà di bloccare il potenziamento del Medicaid (il programma di assistenza sanitaria pubblica per i più indigenti) previsto dalla riforma, un elemento cardine del piano per garantire copertura sanitaria agli americani a basso reddito. Ma perché uno Stato dovrebbe scegliere di esercitare questa facoltà? Dopo tutto si tratta di un programma finanziato con fondi federali che garantirà grossi benefici a milioni di loro cittadini, farà affluire miliardi di dollari nell’economia locale e contribuirà a sostenere le strutture sanitarie locali. Chi rifiuterebbe una simile offerta?
Al momento l’hanno rifiutata 22 Stati. E che cos’hanno in comune questi Stati? Principalmente un passato di schiavismo: fra gli ex Stati confederati, solo uno ha accettato il potenziamento del Medicaid, e anche se fra i 22 figurano pure alcuni Stati del Nord, oltre l’80% della popolazione dell’America anti-Medicaid vive in Stati che prima della Guerra di Secessione praticavano lo schiavismo. E non è solo la riforma sanitaria: il passato schiavista condiziona di tutto, dai controlli sulle armi (o meglio la loro assenza) ai salari minimi, dall’ostilità verso i sindacati alle politiche fiscali.
Sarà sempre così? L’America è condannata a vivere per sempre, politicamente, all’ombra dello schiavismo? Mi piace pensare di no. Un motivo è che il paese sta diventando sempre più variegato etnicamente e la vecchia polarizzazione bianchi-neri sta pian piano diventando obsoleta.
Un altro motivo, come ho detto, è che in realtà siamo diventati molto meno razzisti e in generale siamo una società assai più tollerante su molti fronti. Con il tempo, possiamo aspettarci che il potere della politica-che-parla- in-codice diminuisca. Ma non siamo ancora a quel punto. Di tanto in tanto si leva un coro di voci che dichiarano che la razza non è più un problema in America. È un pio desiderio: il peccato originale della nostra nazione ancora ci perseguita.
Paul Krugman
(© 2015 New York Times News Service Traduzione di Fabio Galimberti)