Il Messaggero, 22 giugno 2015
«La destra non ha vergogna: tornino nelle fogne da dove sono venuti, sono gli eredi del nazifascismo». Così Ignazio Marino dal palco della festa del Pd di Roma fa il bagno di folla tra cori che lo incoraggiano a non mollare. Al contrario, da Palazzo Chigi continuano ad arrivare parole di sfiducia, questa volta dalla Boschi: «L’onestà non basta, i cittadini chiedono che Roma sia gestita bene, e se sarà necessario procederemo con lo scioglimento del Comune per mafia»
«Non arretro di un millimetro». E ancora: «La destra non ha vergogna: tornino nelle fogne da dove sono venuti, sono gli eredi del nazifascismo». Ignazio Marino dal palco della festa del Pd di Roma fa il bagno di folla tra cori («Resisti e non mollare»), pacche e ovazioni. E soprattutto promette il rilancio della città, con tanto di slide. Il sindaco tira dritto. Nonostante il clima di tensione con il Governo. Dopo pranzo il ministro Maria Elena Boschi lo aveva avvertito – parlando a Sky con Maria Latella – tornando a ripetere questo concetto: «L’onestà non basta, i cittadini chiedono che Roma sia gestita bene, e se sarà necessario procederemo con lo scioglimento del Comune per mafia. Solo Marino può sapere se se la sente di continuare». Parole di sfiducia, più che di incoraggiamento, segno di un pressing sempre più asfissiante da parte di Palazzo Chigi.
Soprattutto ora che la giunta perde pezzi: l’assessore renziano Guido Improta si dimetterà a fine mese, Silvia Scozzese, responsabile del Bilancio e ufficiale di collegamento con il Governo, sta meditando l’addio (ma ieri sera è andata ad ascoltarlo alla festa dem). La reazione di Marino è muscolare e strategica. Nel pomeriggio la telefonata con il collega di New York Bill de Blasio («A cui ho raccontato che il mio predecessore è indagato per mafia») e poi il the a casa di Giorgio Napolitano, nel rione Monti. Un incontro di due ore, da cui il Campidoglio fa trapelare «la spinta» dell’ex presidente della Repubblica, e padre nobile del Pd, ad andare avanti. Il vero show però è tutto sul palco. Marino arriva alla festa di un partito commissariato e in preda ai veleni dopo il dossier Barca, spinto dagli applausi e dagli incoraggiamenti dei militanti. («Ti ho votato e devi rimanere»). Da rapido sondaggio, su venti intervistati, non ce n’è uno che vorrebbe che il sindaco si dimettesse. Il palco sembra un ring. Ai bordi ci sono gran parte degli assessori (il citatissimo Sabella), i consiglieri comunali e Matteo Orfini con il capogruppo in consiglio, Fabrizio Panecaldo. In maniche di camicia, solo, il pugile inizia a combattere. Quarantacinque minuti in cui sbatterà i pugni sul leggio («Roma appartiene a noi), sembrerà commuoversi («Io sono stato eletto da voi, e non dai capibastone del Pd, siete il mio popolo: ho il dovere morale di andare avanti»). Insomma sembrerà tutto tranne «uno che si schioda», come dicono i militanti.
L’AFFONDOMa il cambio di strategia di un sindaco pronto a surfare sull’onda della crisi è tutto a sinistra. L’attacco a testa bassa a Gianni Alemanno ne è la riprova. Con tanto di slogan sessantottino («La destra ritorni nelle fogne») e il racconto che il suo predecessore gli telefonò «per darmi due nomi da inserire nel cda dell’Atac». E quando gli rispose «hai davvero qualcuno con un curriculum così preparato?». Alemanno «rimase in silenzio. E mi replicò, scusa ma non hai parlato con il Pd?». La risposta dell’ex primo cittadino è al fulmicotone: «Sta delirando, non ci fu nessuna chiamata, lo querelo». E Giorgia Meloni, leader di FdI, attacca: «Dimettiti invece di dire cretinate: i romani sono già tutti nelle fogne grazie a te».
Ma il discorso di un «Ignazio mai visto così carico nemmeno in campagna elettorale», come dicono dal suo staff, è tutto un ragionamento tra passato della città («Ho visto cose che voi umani...») e il futuro: «Nel 2023 Roma sarà entrata in un’altra epoca». E proprio Sel in questa fase di contrapposizione con il Governo è la prima alleata di Marino, che domani andrà alla festa vendoliana a Garbatella. L’ala sinistra, inoltre, gli chiede di sforare il patto di stabilità, motivo per cui i renziani della giunta sono pronti all’addio. E Renzi? Marino non lo nomina mai. Ma gli ripete che vuole «essere giudicato alla fine dell’intervento e non a metà». Anzi quasi gigioneggia quando dice «adesso citerò Matteo». Il pubblico gli domanda «chi, Renzi?». E lui: «Il Vangelo di San Matteo». La sera dell’ «orgoglio» si conclude tra le cucine della festa («Starà cercando le cuoche di Lenin?», scherzano dagli stand) assediato dal circo mediatico. Da oggi la guerra di resistenza continua.