il Fatto Quotidiano, 19 giugno 2015
Il ritorno del lavoro a cottimo. Così il caso Uber riscrive lo statuto dei lavoratori. Tutele consolidate e privilegi corporativi cadono con l’allargarsi dell’economia della condivisione
La guerra legale su Uber ormai è un contenzioso globale che sta definendo, a colpi di sentenze, il mercato del lavoro degli anni Dieci, dove tutele consolidate e privilegi corporativi cadono con l’allargarsi dell’economia della condivisione. Uber è una app che si scarica sul cellulare e permette di chiamare un’auto a noleggio con conducente (Uber Black) oppure un normale automobilista che vuole arrotondare (Uber Pop, ora illegale in Italia): si indica la destinazione, si riceve il preventivo e, all’arrivo, la somma dovuta viene scalata dalla carta di credito. Uber non offre il servizio, si limita a mettere in contatto la domanda, cioè gli utenti, e l’offerta, chiunque abbia un’auto e sia registrato sulla loro piattaforma.
In Italia tutto il contenzioso legale riguarda antiquati privilegi corporativi dei tassisti che risalgono a una legge del 1992 così obsoleta che anche l’Autorità di regolazione dei trasporti ha chiesto alla politica di ammodernarla, regolando un settore che è molto cambiato. Tutelare il valore di licenze ricevute gratis dai Comune e poi rivendute, spesso in nero, per svariate decine di migliaia di euro è cosa che interessa soltanto gli appartenenti all’agguerrita lobby delle auto bianche. La questione aperta da una decisione della Commissione del Lavoro della California, lo Stato dove Uber è nata (anche se è domiciliata nel paradiso fiscale del Delaware), ha invece una rilevanza molto più ampia, quasi epocale.
La decisione stabilisce che Uber debba rimborsare 4.152,20 dollari a un suo driver, Barbara Ann Berwick, per le otto settimane in cui ha lavorato usando la app lo scorso anno. Proprio perché Uber non è soltanto un mediatore tra domanda e offerta ma si configura più come un normale datore di lavoro, sostiene la commissione californiana. Non priva di argomenti: Uber vieta ai suoi driver di ricevere mance, cosa che invece possono fare i lavoratori autonomi, impone regole sul tipo di auto utilizzabile, al driver non è richiesto alcun talento specifico, nessuna sua strategia di comportamento può avere grande impatto sui ricavi finali, dipende tutto dalle regole fissate da Uber sui prezzi e le commissioni. E il guidatore non è libero di gestire il suo rapporto con la app, ma deve rispettare regole precise per garantire un servizio omogeneo a quello di altre vetture Uber. Insomma, sostiene la Commissione del lavoro della California, Uber non è una piattaforma tecnologica neutrale. È un datore di lavoro. E i suoi driver sono dipendenti. La sentenza non si estende in automatico a tutti i driver, anche se quelli raccolti nella class action che sta chiedendo al Tribunale di San Francisco i danni per le mance non incassate, saranno di sicuro felici.
Non si tratta di una questione che riguarda soltanto Uber. La tecnologia sta azzerando le distanze e le barriere di ingresso in molti settori: con le app per fare l’autista non serve più una licenza, per proporre un progetto di ristrutturazione non è necessario essere architetti, per tradurre un testo su commissione di qualcuno dall’altra parte dell’Atlantico non è neppure richiesto parlarsi al telefono. La prima conseguenza è che si riducono le inefficienze di mercato: se voglio spostarmi da una parte all’altra di Roma quando piove e i taxi sono introvabili, oltre che cari come d’abitudine, posso chiamare Uber. E disoccupati o sottooccupati possono arrivare a un reddito decente usando le opportunità offerte dall’economia digitale.
Il lato oscuro è il ritorno del lavoro a cottimo, di un pagamento a prestazione tarato soltanto sulle esigenze dell’offerta e che, magari fissando un giusto prezzo per servizi a basso valore aggiunto, non consente a chi lavora di avere un reddito dignitoso. La politica e i giudici oscillano tra l’esigenza di adattare le regole a un contesto mutato e quella di preservare conquiste in termini di diritti e salari che risalgono ormai a un altro mondo. Questa è la partita decisiva, nessuno può prevedere come finirà e quali saranno i costi e le vittime della transizione.