Il Sole 24 Ore, 19 giugno 2015
Chi sognava di poter far soldi con il gas naturale si è bruscamente risvegliato in una camera di rianimazione. I prezzi del metano sono crollati in tutto il mondo, trascinando con sé gli esiti di investimenti colossali realizzati dall’industria del petrolio e del gas e da quella elettrica. I 28 paesi della Ue hanno visto evaporare la loro domanda di gas naturale, dai 527 miliardi di metri cubi consumati nel 2010 ai 407 del 2014
Negli ultimi mesi, chi sognava di poter far soldi con il gas naturale si è bruscamente risvegliato in una camera di rianimazione. I prezzi del metano sono crollati in tutto il mondo, trascinando con sé gli esiti di investimenti colossali realizzati dall’industria del petrolio e del gas e da quella elettrica.
Nessun mercato ha sofferto più di quello europeo. I 28 paesi della Ue hanno visto evaporare la loro domanda di gas naturale, dai 527 miliardi di metri cubi (Mmc) consumati nel 2010 ai 407 del 2014. Per questo non stupisce che, di recente, molte grandi società petrolifere europee (tra cui Shell, BP, Total, Eni, BG, Statoil e Repsol) abbiano chiesto a viva voce di aumentare la tassazione sulle emissioni di anidride carbonica (CO2), arrivando a rivolgere un appello alle Nazione Unite.
Un risveglio “verde” un po’ improbabile per un’industria che – soprattutto con la raffinazione di petrolio – è tra le principali emittenti di CO2, comprensibile in parte solo alla luce dell’ordalia del gas. Quest’ultimo si è fatto sempre più spazio nelle riserve, nel conto economico, negli investimenti e nelle prospettive future di gran parte delle major petrolifere mondiali, ma soprattutto europee: di conseguenza, la caduta della domanda e dei prezzi del metano mina quelle prospettive, mettendo a rischio la redditività futura dell’industria stessa.
Così le major cercando di limitare i danni attaccando – attraverso la CO2 – il carbone, il cui consumo sta contribuendo a deprimere la domanda di gas.
Tra le fonti di energia, il carbone è non solo la più “sporca” nel suo intero ciclo produttivo, ma anche quella che emette più anidride carbonica quando bruciata per generare elettricità. Per questo, un aggravio dei costi sulle emissioni di CO2 ha un impatto immediato sulla sua competitività, come sembra dimostrare il caso della Gran Bretagna.
Nel 2013, Londra ha introdotto un prezzo minimo per le emissioni di anidride carbonica fissato a circa 18.08 sterline a tonnellata (circa 27.50 euro). Se il prezzo dei certificati europei di emissione di CO2 scende sotto quel livello, le società che abbiano acquistato quei certificati (che danno il diritto a emettere CO2) devono comunque pagare la differenze al governo. Negli ultimi tempi, il mercato ondeggia su quotazioni della CO2 di circa 7 euro a tonnellata, che rendono troppo conveniente per chi emette anidride carbonica acquistare certificati e continuare a emettere.
Il sistema britannico, invece, sembra aver colpito nel segno. Tra gennaio e aprile del 2015, la generazione di elettricità da gas naturale ha avuto un rialzo di oltre il 50%, mentre la generazione a carbone è caduta del 37% (in parte a causa della manutenzione di alcuni impianti a carbone). E questo nonostante il 2014 non sia stato un buon anno per il gas nemmeno in Gran Bretagna.
Fatto sorprendente, negli ultimi anni il carbone ha avuto un inatteso e bizzarro revival in molti paesi europei. Bizzarro perché il suo consumo è cresciuto in parallelo con la costante crescita delle nuove rinnovabili – cioè solare e eolico – verso le quali la stessa Unione Europea ha fatto voto di fede totale: un po’ come dire il diavolo e l’acquasanta.
Il caso più emblematico di questo paradosso è stata la Germania, che pure rimane il primo consumatore di metano in Europa, davanti a Gran Bretagna e Italia.
La Germania è il paese in Europa che più ha fatto per spingere le nuove rinnovabili, con un costo per i cittadini che ormai supera i 17 miliardi di euro l’anno (tanto è necessario a pagare incentivi diretti e indiretti). Nel 2014, idroelettrico, solare e eolico nel loro insieme hanno così coperto quasi il 28% dell’elettricità prodotta in Germania. Dopo il devastante incidente nucleare di Fukushima nel 2010, inoltre, Berlino ha preso l’impegno ardito di fermare progressivamente tutte le sue centrali nucleari entro il 2022 (che di CO2 non ne emettono) – impegno che ha già portato alla fermata di alcuni impianti.
Nonostante questi sforzi, la domanda tedesca di carbone (lignite inclusa) è cresciuta a tassi molto sostenuti dal 2012 al 2014, fino a coprire quasi il 45% dei consumi elettrici del paese. A spingerla è stato soprattutto il bassissimo costo d’importazione del carbone – soprattutto statunitense; al contrario, il consumo di gas ha continuato a cadere, fino a prendersi poco più del 10% della torta dei consumi elettrici tedeschi.
In molti altri paesi europei carbone e rinnovabili hanno sottratto spazio al gas naturale, nel contesto di una domanda di energia in costante diminuzione per effetto prima della crisi economica, poi di una ripresa troppo lenta. Nel 2014, infine, è piovuto sul bagnato, con la beffa di un andamento climatico eccezionalmente mite che ha tagliato i consumi invernali per il riscaldamento.
Per i produttori e venditori di metano, come ho osservato all’inizio, il danno è pesante. Non solo per le grandi compagnie europee, ma anche per i grandi esportatori come la Russia, che hanno visto diminuire il loro potere di leva sui mercati finali, trovandosi costretti a cercare altri sbocchi di mercato per il proprio eccesso di metano.
Per i produttori di elettricità l’effetto è stato ancor più marcato, soprattutto per tutti coloro dal 2000 in poi avevano puntato sulle centrali a gas per generare energia elettrica. Oggi molte di quelle centrali lavorano a ritmi ridottissimi, tanto che alcuni operatori europei stanno considerando l’opzione di “smontare” le centrali e venderle sul mercato secondario internazionale a paesi in via di sviluppo. Tra molte polemiche, alcuni paesi hanno introdotto il c.d. pagamento di capacità (“capacity payment”), un meccanismo che consente di far pagare una quota a tutti i consumatori di elettricità per sostenere la capacità di generazione in eccesso. Un provvedimento giustificato dalla necessità di sostenere centrali che altrimenti andrebbero chiuse, con rischi futuri in caso di black-out elettrici.
Ma in mancanza di una forte ripresa economica e di inverni rigidi, pagamento di capacità e maggiori costi sulle emissioni di CO2 rischiano di essere zattere inadeguate nella tempesta globale abbattutasi sul gas, che non sembra destinata a placarsi per alcuni anni.