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 2015  giugno 18 Giovedì calendario

Dopo quarant’anni i Golden State Warriors tornano a conquistare il titolo Nba, trascinati da Steph Curry. Erano favoriti e sono riusciti a non sbandare e a battere i Cleveland Cavaliers del mostruoso LeBron James. La squadra che non vinceva mai, irrisa perché con le stesse frequenze a raffica sbagliava acquisti e cacciava allenatori, questa volta ce l’ha fatta

La squadra che non vinceva mai, irrisa da tutti perchè con le stesse frequenze a raffica sbagliava acquisti e cacciava allenatori, quando addirittura qualche suo omaccio non li appendeva in spogliatoio (Sprewell contro Carlesimo, stagione di poca grazia 1997-98), i Golden State Warriors senza dimestichezza del podio sono riusciti, stavolta, in ciò che non capitava loro da quarant’anni. Hanno vinto il titolo Nba: da favoriti, senza sbandare. Erano stati i più forti per tutto l’anno (83 vittorie, solo i Bulls ‘96 e ‘97 meglio di loro), fino al 4-2 nella serie finale e al trofeo alzato l’altra notte a Cleveland, la casa altrui.
Di fronte, i poveri Cavaliers perdevano un pezzo dopo l’altro: e quando LeBron James, magnifico e inutile titano, s’è accorto che intorno a lui non c’era più un quintetto, dissolto dagli infortuni e annacquato dai comprimari, non gli è rimasto che arrendersi. Ha dolorosamente alzato le mani, nell’arena della sua infanzia dov’era tornato per vincere, lasciando le spiaggie felici di Miami. Missione fallita. «Sarebbe stato meglio neppur giocarli, questi playoff, più che perderli in finale», ha esalato sfinito, appena sciolto dal liturgico abbraccio a Steph Curry, l’asso rivale, il suo diametrale opposto fisico. Il Re di Cleveland coi suoi muscoli spalmati su 203 centimetri da uomo bionico, la farfalla di Oakland col suo corpo normale, quasi gracile, tanto da farlo scartare in qualche provino, prima di scoprire che tiro, passaggio, dribbling erano da fenomeno: miglior giocatore di quest’anno, nonché già, all’All Star Game, miglior tiratore da tre punti. Uno accanto all’altro nelle carezze di fine partita, i due assi segnati dal destino di nascere nello stesso ospedale di una piccola città industriale dell’Ohio, Akron (classe ‘88 Curry, classe ‘84 James), si sono finalmente separati. Hanno ancora davanti, entrambi, tanta vita e tanto basket.
I Warriors riportano il titolo in California, nel triangolo dorato dove si sono inabissati i Lakers e non sono ancora maturati i Clippers. L’ultima volta era stata nel ‘75: Rick Barry, l’eroe d’allora, tirava i liberi dal basso, come le ragazze. Col 95% in carriera, però. Stavolta c’è Curry, c’è Klay Thompson, il tiratore che completa il duo degli Splash Brothers, c’è Andre Iguodala, l’eroe per caso di queste finali: l’mvp, votato come migliore. Non era mai partito in quintetto nella stagione regolare, c’è sbocciato in queste finali, per un’intuizione del coach Steve Kerr, fino a ergersi a protagonista. Marcato James e segnate carrettate di punti, Iguodala ha detto alla fine d’aver vissuto qualcosa di irreale, come non poteva dire invece Kerr, libanese per caso e per babbo funzionario, poi ucciso, a Beirut, ex giocatore, pure lui sventolando il suo record: uno dei rari coach a vincere al primo anno di mandato. Ma Kerr contava già cinque titoli nella sua prima vita: due a San Antonio e tre a Chicago, nei fantastici Bulls di Michael Jordan, che una volta, all’ultima azione, sapendo come l’avrebbero marcato, gli passò la palla dell’ultimo tiro. Kerr non fallì e fu il titolo ‘97, in gara 6 contro Utah. Insomma, saper vincere aiuta, anche se il ruolo cambia e ai Warriors Kerr ha chiesto unità e umiltà, difesa e passaggi. Così, quando il tiranno dirimpetto è rimasto solo, inibito a vincere anche se faceva 40 punti, il sistema Golden State ha intascato il dovuto. Inclusi i complimenti di Obama, in un tweet rigorosamente bipartisan («che squadra i Warriors, ma complimenti anche ai Cavaliers per lo sforzo profuso»). Tutti a casa, qualcuno più felice. Quarant’anni dopo.