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 2015  giugno 17 Mercoledì calendario

Il tramonto delle Primarie. Volute dal Pd come metodo democratico, hanno spesso sollevato polemiche e messo in crisi il partito. E proprio ora che il centrodestra pare intenzionato a sperimentarle, Renzi le boccia

Di partito o di coalizione. Per il candidato sindaco o per il governatore. Ma anche per la premiership e per scegliere i parlamentari. Oppure per il segretario di partito. A volte aperte a tutti, altre riservate agli iscritti. Fondamentali per vincere, anche se spesso con un candidato sgradito alla segreteria. Baluardo di democrazia, addirittura da istituire per legge. Ma, in caso di sconfitta, subito sul banco degli imputati. In dieci anni di vita, le primarie – sinonimo di primarie di centrosinistra – ne hanno viste di tutti i colori. Polemiche e dimissioni, lotte intestine. Oggi – proprio quando anche il centrodestra sembra essersi convinto a fare il grande passo – Matteo Renzi rompe il tabù e dice (nel colloquio di ieri con La Stampa) che se dipendesse da lui «la loro stagione sarebbe finita». E quindi?
Se lo chiedono in molti nel Pd, soprattutto a Milano, dove la macchina delle Comunali 2016 è già in moto. «Non ci facciamo imporre il candidato da Roma. Per noi le primarie sono imprescindibili» dicono tutti, dall’assessore Majorino al segretario regionale Alfieri.
Le vittorie (degli altri)
Proprio a Milano, quattro anni fa, il Pd ha assaporato il gusto agrodolce di questo strumento democratico. Vincendo sì le elezioni, ma con un candidato non suo: il nome di Giuliano Pisapia, indipendente, era spuntato proprio dalle primarie, da cui il candidato del Pd – Stefano Boeri – ne era uscito sconfitto. Una storia che in questo decennio si è ripetuta ciclicamente. Addirittura due volte con lo stesso copione in Puglia: Francesco Boccia, del Pd, sconfitto da Vendola prima nel 2005 e poi nel 2010. Ma la lista degli esempi è lunga: dal genovese Marco Doria (il duo Vincenzi-Pinotti finito ko) fino all’eretico Ignazio Marino (stesi Gentiloni e Sassoli a Roma). A volte, e ci mancherebbe, hanno anche funzionato. Quelle del 2005 hanno portato Romano Prodi al governo nel 2006. Quelle di partito del 2007 hanno coronato il sogno di Walter Veltroni. Quelle fiorentine del 2009 hanno portato a Palazzo Vecchio Matteo Renzi, che poi però ha perso la sfida per la premiership nel 2012.
Ma al governo Renzi c’è arrivato comunque, via primarie per il Nazareno. E da lì ha cambiato la legge elettorale, nella quale a un certo punto si volevano inserire a tutti i costi le primarie obbligatorie per la scelta dei parlamentari da inserire nel listino bloccato. L’elettore, stupito, si chiedeva: ma allora perché non mi danno la possibilità di sceglierli con le preferenze? Forse perché le primarie per legge sarebbero state a spese dello Stato? Tant’è, alla fine non se n’è fatto nulla.
C’era un cinese in coda
C’è poi l’aspetto morale, a tratti legale. Perché ai gazebo spesso si sono verificate situazioni imbarazzanti. Nel 2011, per esempio, le lunghe file di cinesi ai gazebo hanno portato all’annullamento delle primarie vinte da Andrea Cozzolino. E alla conseguente candidatura fai-da-te di Luigi De Magistris. Pasticci simili, ma nessun annullamento, quest’anno in Liguria. Anche se gli strascichi di quella situazione sono stati determinanti nella vittoria di Giovanni Toti. Scelto senza nessuna consultazione popolare, ma come sempre direttamente da Berlusconi. Già ai tempi del Pdl girava una battuta che ironizzava sui costumi delle partecipanti alle cene eleganti: «Silvio non ama le primarie, preferisce le infermiere».