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 2015  giugno 17 Mercoledì calendario

«Non mi dimetto, neppure se me lo chiedono». Dopo la sfiducia di Renzi via tv, Ignazio Marino fa sapere di non essere «disponibile a passare per quello che ha portato i ladri in Campidoglio. Se mi rimuovono, mi devono far ricandidare. Adesso vado a festeggiare il Papa...»

La prima «botta» («forse si vota anche a Roma nel 2016, se torna il Renzi 1 fossi in lui non starei tranquillo»), Ignazio Marino prova a derubricarla ad «una battuta, a cui non si risponde». Aggiungendo, coi suoi: «C’è in gioco il bene della Capitale e continuo a lavorare». In pubblico, Marino ripete: «Dimissioni? Penso al futuro della città che cammina e va avanti». L’agenda non cambia: prima al Teatro dell’Opera per presentare la stagione («sprizzo gioia da tutti i pori», esagera), poi le solite riunioni. I cronisti insistono: vi siete sentiti con Renzi? E il primo cittadino: «Ho sentito il nuovo ad di Musica per Roma». La sua ultima nomina, lo spagnolo José Ramon Dosal Noriega, della quale Ignazio si compiace in un comunicato. Per i renziani «è l’ennesima dimostrazione che è disconnesso dalla realtà». 
Marino, dopo l’Opera, rimane asserragliato nel bunker di palazzo Senatorio, ma col passare delle ore l’ostentata serenità si trasforma prima in ansia, poi in rabbia. Verso sera, è chiaro che i tentativi di mediazione, portati avanti dagli sherpa del Campidoglio, sono falliti. Per Marino, le risposte del premier a Porta a Porta, sono la seconda doccia gelata, con quel «il sindaco si guardi allo specchio e decida cosa fare» che suona quasi feroce. Marino, di nuovo, prova a far finta di niente: «Guardarmi allo specchio? Adesso vado a festeggiare il Papa...», dice uscendo dal suo fort apache. Ma quelle poche certezze che pensava di avere, costruite nei colloqui con Matteo Orfini e col sottosegretario De Vincenti, vacillano. Marino, con la sua ristrettissima cerchia, si sfoga: «Non mi dimetto, neppure se me lo chiedono». E, girando per i corridoi, ripete: «Non sono disponibile a passare per quello che ha portato i ladri in Campidoglio. Se mi rimuovono, mi devono far ricandidare». 
Il chirurgo dem è spiazzato, confuso. E, già dalla mattina, aveva cercato di capire se le prime frasi di Renzi fossero un semplice «avvertimento» o qualcosa di più. Il sindaco parla con Orfini, cerca un contatto diretto con Renzi, che non arriva. Vorrebbe che quelle parole venissero smussate, se non smentite. A Palazzo Chigi, trova De Vincenti, a cui ricorda che «il Giubileo è alle porte» e che il Consiglio dei ministri di venerdì deve «sbloccare i fondi necessari alle opere». Poi riprende i suoi incontri di routine: assessori, comunicatori, staff, coi quali parla di cantieri, di strade, di cose da fare. Vede anche i Radicali, promettendo che andrà in aula a riferire su Mafia Capitale (Buzzi chiede il patteggiamento, la Procura dice no). 
Giuliano Pisapia lo difende: «Azioni di inizio sfratto sarebbero deleterie: regalerebbero Roma a Cinque Stelle o CasaPound». Ma anche il sindaco di Milano ammette: «Se Renzi si fosse rivolto a me, sarei preoccupato». Da ieri sera, lo è anche Marino.