Corriere della Sera, 16 giugno 2015
Il rammarico dell’Italia, spesso costretta ad accettare il ruolo dominante di altri Stati
Mi potrebbe spiegare in virtù di quale delega Germania e Francia negoziano la vicenda della Grecia a nome di tutta l’Ue, coinvolgendo Paesi come il nostro, le cui banche erano pochissimo implicate nel debito di quel Paese ed estranei alle vendite forzose di navi militari, sempre francesi e tedesche, che negli scorsi anni avevano condizionato l’erogazione di nuovi prestiti? La stessa domanda vale, ovviamente, anche per le decisioni che concernono austerity, sanzioni alla Russia ed ogni altro provvedimento comunitario, sino a dettare il comportamento da tenere nell’affondamento del naviglio dei trafficanti di esseri umani e nella gestione di questi ultimi che ci colpisce direttamente e il cui incremento geometrico di questi giorni è da ascrivere principalmente al maldestro intervento in Libia disposto (contro i nostri interessi) dal governo francese?
Enrico Comelli
Caro Comelli,
Lei solleva problemi diversi, ma collegati dal rammarico che l’Italia, nelle tre vicende da lei citate, sia costretta ad accettare il ruolo dominante di altri Stati: l’asse franco-tedesco nel caso dei negoziati con la Grecia, la politica degli Stati Uniti nel caso delle sanzioni adottate contro la Russia dopo la crisi ucraina, l’asse militare franco-inglese nel caso delle operazioni militari contro la Libia nel 2011. Questa relativa «marginalità» è sempre stata, sin dalla nascita della Repubblica, una delle maggiori preoccupazioni della diplomazia italiana. Siamo riusciti a fare parte del G6 (Canada, Francia, Germania, Giappone, Italia e Stati Uniti), divenuto più tardi G7 e G8. Ma non siamo mai riusciti a forzare la porta dell’asse franco-tedesco. Vi provò, all’inizio degli anni Ottanta, Emilio Colombo, allora ministro degli Esteri, quando puntò, con l’aiuto di Hans-Dietrich Genscher, responsabile della politica estera della Repubblica federale, sulla creazione di una sorta di asse italo-tedesco. Ma i risultati furono più formali che sostanziali. Possiamo esserne spiaciuti e cercare di modificare questo rapporto ineguale. Ma non dovremmo mai dimenticare, nemmeno per un momento, le ragioni della distanza che ci separa dal Paese, la Francia, a cui spesso rimproveriamo di avere un prestigio e un ruolo immeritati. Vi è anzitutto l’economia. I conti francesi, da qualche tempo, non sono in buone condizioni, ma il prodotto interno lordo francese supera di sei mila miliardi quello italiano e il suo debito pubblico è considerevolmente inferiore al nostro.
Vi è in secondo luogo il profilo militare dei due Paesi. La Francia è una potenza nucleare e ha un bilancio della Difesa che è grosso modo il doppio di quello dell’Italia. In tutte le questioni che concernono la sicurezza in Europa, nel Mediterraneo e nel vicino Oriente, la Francia, per le altre potenze, è un interlocutore obbligato. L’Italia ha cercato di riscattare la propria immagine accettando con grande diligenza compiti non indifferenti in Libano e in Afghanistan. Ma non giova al suo governo essere continuamente guardato a vista da forze politiche e gruppi sociali che sembrano credere nel valore taumaturgico di un articolo della Costituzione sul ripudio della guerra.
Vi è infine il problema istituzionale. Entrambi i Paesi hanno un politica litigiosa e incline agli scandali, ma la Francia ha una costituzione che assicura la stabilità dell’Esecutivo e gli garantisce i poteri necessari per assumere impegni di lungo respiro. L’Italia sa da più di trent’anni che la sua costituzione è invecchiata e che ha bisogno di un radicale bucato. Ma nessun governo, sinora, è riuscito a scavalcare le barriere elevate da coloro che preferiscono un potere spezzettato e inefficace. In queste condizioni l’Italia continua a mandare in giro per il mondo un presidente del Consiglio e un ministro degli Esteri che non hanno i poteri dei loro naturali interlocutori.