Corriere della Sera, 16 giugno 2015
«Posso rimettere in moto questo Paese». Con queste parole Jeb Bush si candida alla Casa Bianca. Ma prima di sfidare Hillary Clinton dovrà vedersela con senatori come Rand Paul e Ted Cruz, ex governatori come Rick Perry e George Pataki, e poi ci sono Rick Santorum, Carly Fiorina e perfino il miliardario Donald Trump. Al suo fianco però ha la moglie messicana Columba e il suo braccio destro Sally Bradshaw, la «magnolia di titanio»
«Jeb 2016!» con un bel punto esclamativo, ma senza l’ingombrante cognome. E poi una promessa: «Posso rimettere in moto questo Paese perché l’ho già fatto in Florida: nei miei otto anni da governatore, otto bilanci in equilibrio e crescita record dei posti di lavoro e delle attività imprenditoriali». Dopo una fase «esplorativa» durata sei mesi, ieri sera Jeb Bush ha lanciato la sua candidatura alla Casa Bianca con un logo sbarazzino e un discorso orgoglioso, pronunciato in maniche di camicia in un luogo che ha poco a che vedere con la tradizione repubblicana: il Miami Dade College, un istituto che sorge nel bel mezzo del quartiere cubano della metropoli della Florida e che ospita la più grande comunità studentesca ispanica d’America.
Campagna tutta in salita quella che aspetta il figlio e fratello di presidenti: quando, l’anno scorso, annunciò l’intenzione di candidarsi, schizzò subito in testa ai sondaggi (pur non superando mai il 20 per cento dei consensi). Ma poi, tra sortite infelici (come le incertezze nel giudicare un errore la guerra contro l’Iraq scatenata dal fratello George) e l’arrivo sulla scena di candidati più giovani e freschi del 62enne ex governatore – dal senatore Marco Rubio, suo ex delfino, al governatore del Wisconsin Scott Walker – Jeb ha visto i suoi consensi scivolare fino all’attuale 11 per cento.
Il terzo Bush che cerca di arrivare alla Casa Bianca è, così, finito nel mezzo del gruppone dei 25 candidati che sono già allineati ai blocchi di partenza, 15 dei quali sono personaggi nazionali, da Rick Santorum a Carly Fiorina, passando per i senatori Rand Paul e Ted Cruz, ex governatori come Rick Perry e George Pataki e perfino il miliardario Donald Trump. Costretto a cercare di emergere, Jeb tenta di mostrarsi sereno e rilassato. Promette una campagna «gioiosa»: correrà per la presidenza mostrandosi solidale coi deboli, anche se per molti repubblicani questa non è una priorità e dice di non essere preoccupato dai sondaggi attuali visto che, comunque, «gli elettori decidono come votare solo pochi giorni prima del voto». Insomma, c’è tempo: la stagione delle primarie si aprirà solo il primo febbraio 2016 col «caucus» dell’Iowa.
Prima o poi, comunque, Jeb dovrà cominciare a recuperare terreno: dispone di una macchina elettorale potente, i finanziatori del fronte conservatore sono in maggioranza con lui, ma, come già Mitt Romney quattro e otto anni fa, l’ex governatore ha un problema di comunicazione. Sa amministrare, ma non ha un’oratoria trascinante, non suscita emozione.
Tre giorni fa Hillary Clinton, che ha un problema simile, ha cercato di ridurre la distanza tra il ceto medio progressista e la «royal family» del partito democratico rievocando l’infanzia difficile della madre Dorothy. Una strada evidentemente preclusa a Jeb che ha scelto di sottolineare l’amore per il padre e il fratello, ma anche la sua diversità politica. Nella sua prima sortita pubblica da candidato, ha puntato su quattro messaggi: ottimismo sul futuro dell’America e sulla capacità di «tornare ad avere il controllo del futuro del nostro Paese» in un periodo «che sarà il momento migliore per vivere del nostro mondo». Poi la promessa di «ricostruire la potenza militare e la leadership politica americana» deteriorate durante la presidenza Obama, incapace di proteggere gli amici e imbelle davanti ai nemici. In terzo luogo la competenza economica dell’ex governatore contrapposta all’esperienza fatta solo di parole degli altri candidati alla «nomination» che fanno politica tra i palazzi di Washington. Infine l’impegno a battersi anche per risolvere il problema degli immigrati clandestini e per i più deboli della società, come i disabili «che hanno diritto a un posto in prima fila, non nelle retrovie»: messaggi più vicini al solidarismo democratico che ai Tea Party. «Lo so, è una gara incerta, aperta: deve essere così», conclude Jeb.