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 2015  giugno 16 Martedì calendario

Partendo dal caso del 19enne salvadoregno col machete, la domanda che sorge è: quanto durerà questo nostro retaggio che ci vede sensibili allo scusarsi anche per l’inescusabile? La prima cosa è scusarsi, sempre: lo consiglia il prete e il giudice, l’avvocato e la maestra, il politico e la zia. Ma oggi le scuse non vogliono dire più niente, sono parole a costo zero

Ieri, sul web, la cosa suonava così: «Ehi, amico capotreno, scusa se ho tentato di amputarti il braccio col machete, ero un po’ brillo: amici?». Ecco: forse partire da un 19enne salvadoregno per tentare di ragionare sul significato moderno di «scuse», come dire, rischia di tagliare i ragionamenti col machete. Resta la domanda: quanto durerà questo nostro retaggio che ci vede sensibili allo scusarsi anche per l’inescusabile? La prima cosa è scusarsi, sempre: lo consiglia il prete e il giudice, l’avvocato e la maestra, il politico e la zia. Ma oggi le scuse non vogliono dire più niente: sono parole a costo zero, non c’è niente di cavalleresco, è solo una liturgia ipocrita, un falso pentimento che sostituisce l’antico e signorile pagare pegno: inteso come rispondere delle proprie azioni. Oggi chi si scusa, invece, è uno che sta già cercando di sfangarla: che vuol dire scusarsi dopo ripetuti colpi di machete? È chiaro che se uno gira col machete nei pantaloni, e lo estrae e lo usa, beh, forse ci ha messo del suo. Non che nella vita pubblica cambi granché: le scuse – ci pare – dovrebbero far seguito a irruenza, a parole dal sen fuggite, a un errore non calcolato; invece assistiamo a continue scenette con politici e personaggi vari che dicono tutto quello che vogliono dire e magari lo pronunciano da scranni rilevanti: poi, soppesate le reazioni, buttano lì delle scuse che non hanno conseguenze e non importano a nessuno. Scusate, ciao. Da noi, non a caso, tutti si scusano e nessuno si dimette.