Il Sole 24 Ore, 16 giugno 2015
Ricadrebbe quasi del tutto sugli Stati l’onere del fallimento della Grecia. La maggior parte del debito di Atene è in mano alle istituzioni sovranazionali come Fmi, Fondo salva Stati e Banca centrale europea. Solo il 15% è posseduto da privati
Quanto? In economia, quando la scienza prevale sull’ideologia, la questione è sempre questa: i costi e i benefici delle scelte da compiere. Non sempre è facile valutarli, ma spesso è necessario, come nel caso della Grecia: quanto costano le diverse opzioni sul tappeto oggi che i colloqui sembrano a un passo dal fallimento?
«La Grecia è irrilevante»: per gli economisti di mercato – nel caso particolare, Stephen L. Jen di Slj MacroPartners – la vicenda greca è una non-storia. Può essere un buon pretesto per le operazioni quotidiane, come ieri; ma un mancato accordo – si concretizzi in un default o in un’uscita dall’Unione monetaria – difficilmente avrà un effetto duraturo. L’idea che Atene possa essere una nuova Lehman – un “fallimento” relativamente piccolo dagli effetti devastanti – sembra non convincere davvero gli investitori. E questa relativa certezza dei mercati dovrebbe – dovrebbe... – evitare il sorgere di aspettative perverse: il panico.
Non sono i privati, infatti, a possedere il debito greco. Diversamente da quanto accadde nel 2010-11, quando le banche erano piene di titoli di Atene, oggi il paese è esposto nella stragrande maggioranza verso istituzioni sovranazionali e internazionali – in prima linea Fondo monetario internazionale, Fondo salva stati e Banca centrale europea. Solo il 15% dei circa 330 miliardi di euro dovuti dalla Grecia sono nelle mani dei privati. Non poco, ma neanche tanto da far temere un tracollo del sistema. «La zona euro è “sicura”, in parte grazie al quantitative easing – spiega in una nota Erik Nielsen di Unicredi Bank – mentre i Balcani ora hanno fatto ampiamente in modo di isolarsi».
La Banca centrale europea, che deve prendersi cura della stabilità del sistema bancario e finanziario, non fa molta fatica nel suo tentativo di apparire tranquilla. Draghi, al Parlamento europeo, ha spiegato ieri che con il default «abbiamo tutti gli strumenti per gestire la situazione al meglio»?mentre con l’uscita di Atene dell’euro ci sono strumenti per gestire la situazione nel breve termine. Il presidente della Bce sembra sfuggire solo alla domanda sull’eventualità di un mancato pagamento della Grecia: dopo il rimborso del prestito con il Fondo monetario, ora previsto per fine mese, vengono a scadenza il 20 luglio interessi e capitali per 3,5 miliardi su bond detenuti proprio dalla Bce (più di quattro volte l’utile netto 2014 dell’autorità monetaria). «Sarebbe privo di sensi fare ipotesi (speculate, in inglese, ndr) su mancati pagamenti», ha però detto.
In ogni caso, ha ammesso Draghi, si tratta di entrare in «territori inesplorati». In una situazione, si può quindi immaginare, in cui basta una frase sbagliata per aumentare la volatilità sui mercati. Qualunque sia la forma che prenda un mancato accordo, la Grecia dovrà infatti introdurre controlli di capitali, forse emettere dei “pagherò” in sostituzione di una liquidità che non c’è, e alcune banche potrebbero essere nazionalizzate per non fallire.
Il costo vivo di un mancato accordo, in questa situazione, ricadono in buona parte sugli Stati membri: 60 miliardi è l’esposizione della Germania, 46 della Francia, 40 dell’Italia, 26 della Spagna. Anche in questo caso sono cifre importanti, ma non imponenti: non tali da mettere in difficoltà i conti pubblici, anche in caso di default anche perché in parte si tratta di un’esposizione indiretta, attraverso la Bce, l’Fmi o l’Esm, il fondo salva-stati.
Il vero problema sono però le conseguenze nel medio-lungo periodo di un mancato accordo. «Non siamo in grado di prevederle», ha spiegato Draghi. Anche perché si tratta di un costo non immediatamente “monetizzabile”, e in parte anche politico. Anche se si riuscisse – ma non è compito semplice, nell’attuale situazione sociale e politica dell’Europa – a far ricadere tutte le colpe su Atene e il suo governo, l’Unione monetaria apparirebbe più vulnerabile, e con essa la stessa Bce. Il “rischio di ridenominazione” – il pericolo che si torni alle monete nazionali – diventerebbe inoltre più concreto, se non attuale. Im passato questa eventualità ha pesato sui rendimenti dei titoli di Stato di alcuni paesi, che oggi sono tenuti sotto controllo dagli acquisti della Bce, ma nel tempo potrebbe tornare a influire sulle quotazioni.
Senza contare il nodo tutto politico: il destino della Grecia, qualunque esso sia – e non si può, in base alla storia, neanche escludere un’uscita dall’euro con grandi immediate turbolenze compresa la caduta di Syriza e una successiva forte ripresa del paese – inciderà anche sul futuro di tutte le forze euroscettiche attive nella Unione monetaria: forze che non piacciono certo alle attuali élites della Ue.