la Repubblica, 15 giugno 2015
La fine di un amore raccontata da Murakami. Nella sua nuova raccolta di racconti l’autore declina al maschile la sindrome dell’abbandono
L’universo mentale in cui viviamo può essere dissolto da una frase, come questa: «A volte perdere una donna significa perderle tutte». Dopo, scrive Murakami Haruki, si entra in un diverso mondo, quello degli uomini senza donne in cui «anche la vibrazione dei suoni è diversa, anche il modo di schiarirsi la gola. E la velocità a cui cresce la barba», gli sguardi del commesso, gli assoli di jazz, il modo in cui si aprono i vagoni della metropolitana, tutto sembra differente. Svaniscono «le loro schiene seducenti», le musiche che amavano, «le ammoniti e i celicanti», le visioni e i sogni condivisi sul soffitto di una camera.
Resta... Che cosa resta? Mentre leggevo, seduto su un treno ad alta velocità, scomparivano le città, i passeggeri intorno, la meta a cui ero diretto, il presente, i ricordi. Restano le parole. Quando non dici, né scrivi, leggi, fino a trovare quelle giuste, che esprimano in tuo nome e per conto tuo qualcosa che non sapevi come definire. Tra lettore e autore esiste un rapporto di delega simile a quello tra elettore e senatore, ma in generale la letteratura è più onesta della politica.
Murakami è una popstar della narrativa internazionale, conta ovunque fan club a cui non mi sono mai iscritto. Ho qui criticato l’eccesso di “product placement” nel suo ultimo romanzo e in generale mi sono spesso perduto nelle “deviazioni standard” del suo modo di narrare. Di Uomini senza donne (uscito da Einaudi, traduzione di Antonietta Pastore) ho subito pensato, nell’ordine: che il titolo era già stato usato per una raccolta di racconti di Hemingway, che giocasse con vecchi fantasmi (Kafka, i demoni incarnati, Sharazad, lamprede e meduse), che potesse cedere a un sentimentalismo da musica leggera. Prima che il treno arrivasse a destinazione avevo cambiato completamente idea. Due dei racconti che avevo letto (Drive my car e Kino) mi avevano toccato profondamente e ancora mancava il finale, quello che dà il titolo e il senso. Ho deciso di terminarlo dove ero destinato, curiosamente lo stesso posto dove finivano molti protagonisti: una stanza estranea, un non luogo. Nel mio caso, una camera d’albergo vicino a una stazione, dove aspettare una partita alla tv, un servizio in camera, l’alba seguente, il treno del ritorno. Il rifugio di un esule, un condannato o un uomo braccato come il protagonista di Sharazad che lì riceve la visita di una misteriosa “badante”: gli porta la spesa, fa sesso con lui, gli racconta una storia. Dalla propria, l’uomo evade in quella di un altro: come fa chi scrive, chi legge, chi recita. Non a caso in Drive my car il protagonista è un attore, anzi «distaccarsi da sé e immedesimarsi in un ruolo era il suo lavoro». Una recita senza pubblico, una manovra di distacco. Da che cosa? Dolori ed errori. Tutti e sette i racconti di Murakami hanno un meccanismo in comune, un doppio fondo: ogni storia ne contiene un’altra che affiora lentamente, senza rumore. Non è un espediente, non è tecnica, è qualcosa che ha a che fare con il pudore. È un avvicinamento in punta di piedi, un gesto collegato a uno dei temi e dei valori ricorrenti: la gentilezza del silenzio. Tace a lungo la giovane autista (e ingrana le marce in modo inavvertibile), tace il misterioso uomo al bancone del bar Kino (legge volumi rilegati, beve whiskey con la stessa quantità di acqua, sorveglia, quando ogni pericolo è scampato, paga ed esce). Hanno anche loro una storia, ma aspettano che sia l’altro (il passeggero, il barista) a svelare la propria, rinunciando cortesemente al ruolo di co-protagonista per mettersi di lato e ascoltare. Rispettano la ferita e non hanno cure da proporre. Sono lì, come disponibili fantasmi, in quegli spazi ristretti dove avviene la rivelazione: una camera, l’angolo di un caffè, l’abitacolo di un’auto gialla.
Viaggiano tutti sulle corde del sensibile, sfiorano a tratti il patetico, esponendosi a un facile cinismo che l’autore definirebbe “da marinai”. Ci sono vedovi, divorziati, traditi, impotenti: «Bottoni sfasati rispetto alle asole».
Il tema dell’abbandono conosce molte trattazioni letterarie al femminile, la versione maschile è un azzardo controbilanciato solo dal marchio di Murakami. Fosse arrivato come manoscritto anonimo dubito che questo testo avrebbe trovato editori entusiasti. «Legge ormai solo il pubblico femminile», dicono spargendo zucchero sulla copertina. E qui le donne sono infedeli, perfino in maniera postuma, inaffidabili, bugiarde al punto che un intero racconto si basa sull’ipotesi che abbiano un “organo indipendente” ricorrendo al quale possono mentire senza né consapevolezza né turbamento. Perché allora tutti questi bottoni cercano l’asola che li imprigionerà fino a sdrucirne il filo e farli cadere? Che cosa manca davvero agli uomini senza donne? Il sesso? Sì, certo, ma se bastasse quello il medico playboy di Organo indipendente non si lascerebbe morire d’inedia. Lo fa perché ha incontrato l’unica donna che gli offre in versione totale quel che le altre gli danno a spizzichi: l’intimità. Che è poi il riflesso di sé, il momentaneo pieno rispetto al vuoto che segue la più fatidica delle domande. Quale? Ci aspetta tutti. È una svolta della storia, un pugno che bussa alla porta chiusa della stanza dove ci siamo nascosti. È formulata nell’altra lingua in cui parliamo per dimenticare ogni cosa ( inclusa la dimenticanza), con la voce di chi abbiamo creduto di poter rimuovere. Come possiamo non aver visto arrivare quella svolta, quel pugno? Perché, come per l’attore di Drive my car, nella nostra visuale si è insinuato un angolo cieco. O, forse, l’abbiamo creato noi per non vedere quel che non potevamo accettare: l’invalicabilità di un lutto, la deformità di un passato, la colpevole inerzia di fronte al male. È così che la più fatidica delle domande arriva, quando siamo soli e alla deriva, quando ci hanno portato via tutto, come internati e ci rendiamo conto di non aver avuto nessun merito che giustificasse la nostra ricchezza o la nostra esistenza. La domanda è: io chi sono? E la risposta non è un nostro privilegio. Sta, come tutto, negli occhi di chi guarda, nell’amore, rispetto, accettazione che avremo saputo suscitare: «Non distogliere gli occhi, guarda me, gli mormorava all’orecchio qualcuno; questa è l’immagine del tuo cuore».