il Fatto Quotidiano, 15 giugno 2015
Piero Dorazio: gli eredi in lite, l’arte oscurata. Un testamento ignorato, battaglie legali, guerre incrociate: a dieci anni dalla morte di uno dei maestri dell’astrattismo italiano e mondiale, è ferma la rivalutazione della sua opera, un patrimonio della collettività
L’ultimo capitolo della storia è confuso come il primo, ma non ha lo stesso alito di romanticismo. L’ultimo capitolo della storia racconta di uno dei più grandi artisti del Novecento italiano, Piero Dorazio, perso dentro le carte bollate, un testamento ignorato, guerre tra avvocati. La sua morte, arrivata nel 2005, trattata come una qualunque spartizione d’eredità, tra case, quadri, diritti d’autore, nessuna aurea, nessun desiderio di preservare un bene dell’Italia, di preservare uno dei pochi testimoni nostrani, riconosciuti in tutto il mondo dell’arte.
Passo indietro. Per capire chi è Piero Dorazio, da dove arriva, in quale contesto nasce, basta ritrovare un delizioso libro, Osteria dei pittori, scritto da Ugo Pirro e pubblicato da Sellerio nel 1994: è il secondo dopoguerra romano, dove il riscaldamento è un maglione infeltrito o una sedia rotta e da ardere; il cibo una scommessa quotidiana, oggi pane e patate, domani chissà. La carne un lusso per altri. Intorno a via Margutta, quando ancora non era via Margutta, un gruppo di ragazzi dipingeva, condivideva, sognava, parlava di politica, quasi tutti di sinistra, quasi tutti comunisti, certamente antifascisti, quasi tutti squattrinati. In un vecchio scritto, Ugo Attardi, anche lui artista, ricordava: “D’inverno perdevo fino a venti chili, non avevo da mangiare, poi l’estate tornavo a casa mia, in Sicilia, e in tre mesi recuperavo tutto. Ma il desiderio di stare a Roma era più forte della fame, poi c’era una salvezza…”. E la salvezza era l’osteria dei fratelli Menghi, dove la “moneta” non era sempre la Lira, ma l’arte, il talento, la capacità di intuire; dove la moneta era anche un disegno scarabocchiato sulla tovaglia di carta o su un tovagliolo, magari una tela appena dipinta grazie alla quale strappare il debito e condividere le gioie con i compagni. Su quei tavoli sono passati alcuni dei più grandi artisti italiani e non, da Carla Accardi a Afro Basaldella; da Pietro Cascella (poi autore del mausoleo a Silvio Berlusconi) a Lucio Manisco (nella pagina accanto la sua intervista-ricordo), fino a Mino Maccari e Picasso, e altri, e ancora altri. Tra loro ecco Piero Dorazio, uno dei più attivi, uno considerato dagli amici “uno arrabbiato”.
Così da quella approssimazione da dopoguerra è nato uno dei momenti migliori dell’astrattismo italiano, una delle fasi più emozionanti, una delle poche riconosciute anche all’estero e in ambito museale, dove accanto alla stagione futurista di Balla e Boccioni, le “Piazza Italia” di Giorgio De Chirico, è facile ritrovare le linea astratte dei rappresentanti di “Forma1”, un gruppo straordinario fondato a fine anni Quaranta, del quale Dorazio era protagonista e riconosciuto tale. Amato, imitato, vezzeggiato, da alcuni idolatrato, sfruttato commercialmente, tra i pochi ad aver ottenuto in vita quotazioni altissime, l’aspetto economico è pur sempre un parametro, quindi opere vendute o battute all’asta per decine, centinaia di migliaia di euro, mostre nei più importanti spazi privati e pubblici, nazionali e internazionali, compresa New York, compresa Londra o Parigi. Lui però, dal 1974, sceglie Todi, la sua tranquillità, le colline, la gente umbra, abbastanza lontano e abbastanza vicino a Roma, centro dell’arte nostrana insieme a Milano; chi voleva parlarci doveva andare lì, passeggiare con lui tra le vie, magari di notte quando il contesto era ancor più tranquillo (come ricorda lo stesso Manisco), condividere certe emozioni, condividere i suoi progetti di riqualificazioni urbana, di diffusione della cultura, come il casolare dove aveva allestito una scuola di ceramica; o la Galleria Extramoenia di Piazza Garibaldi, l’edificio cinquecentesco da lui preso in affitto per un centro espositivo e sede del suo immenso archivio. E poi un altro appartamento a piazza di Marte, acquistato come prima sede della sua fondazione Flaminia-Todi. In questo contesto, e negli anni, aveva coinvolto personalità come Hans Hartung, Howard Hughes, Eugène Ionesco, Vanessa Redgrave; e ancora Michelangelo Antonioni e molti altri, tutti irretiti dalla personalità e dal carisma di Dorazio e dall’incanto dei luoghi.
Di tutto questo non c’è più nulla.
Eredi litigiosi, quel testamento non riconosciuto, le battaglie legali hanno portato alla liquidazione del patrimonio tudertino e del lascito ideale e culturale di Piero Dorazio. L’appartamento di piazza di Marte è stato venduto lo scorso anno, e la fondazione a cui aveva attivamente collaborato il pittore Graziano Marini e che avrebbe dovuto essere diretta dalla nipote, Maria Pia Dorazio, con un lascito di 400 mila euro, è rimasta per dieci anni lettera morta. Nel 2013, dopo la morte della moglie Giuliana Soprani, è stato disdetto l’affitto della Galleria Extramoenia, oggi sempre aperta ma con un altro nome e un’altra gestione.
Il grande complesso dell’Eremo dei Camaldolesi, ristrutturato dallo stesso Dorazio, è stato recentemente messo in vendita per 8 milioni di euro. Donna Pupa Bucci Casari, grande amica dell’artista e sua vicina di casa, denuncia: “Per l’incuria e la mancanza di manutenzione sta andando in pezzi, crepe nei muri e sterpaglie nel giardino disegnato da Respighi. Ci vorranno milioni e milioni di euro per restaurarlo; difficile se non impossibile venderlo a quel prezzo”.
Non solo. In questi anni sono scomparse importanti tele, alcuni eredi hanno impedito mostre e commemorazioni, per il decennale dalla morte; per il ricordo, a Todi, sono state esposte solo fotografie a lui dedicate e nessuna opera. Chi passeggia per la stessa cittadina umbra non troverà niente a lui riferito, niente, al massimo i segni di una crisi generale che ha colpito anche questo lembo di Paese. Un vendesi, un affittasi, un altro vendesi, i commercianti in attesa sull’uscio del negozio, sigaretta tra le mani.
Da queste parti di Piero Dorazio è rimasta la tomba nel cimitero di Canonica di Todi, con l’iscrizione “Civis romanus e pictor optimus”, una cappella con dodici loculi, undici per eredi e discendenti. Sembra che uno di questi dopo aver lasciato Todi con i suoi consanguinei, abbia eletto la residenza all’estero. Però, come spesso accade, per capire cosa noi italiani siamo bravi a perdere, basta leggere le etichette nei grandi spazi museali internazionali, basta “sbirciare” dentro il Moma di New York, o il Fine Arts Museums di San Francisco; la Tate Gallery di Londra o il Georges Pompidou di Parigi, e lì troverete scritto: opera di Piero Dorazio. Quello che appartiene all’universo mondo della cultura, noi lo riduciamo a una bega famigliare, ultimo capitolo di una storia di tutti noi.