il Fatto Quotidiano, 15 giugno 2015
Tutti i silenzi su Domenico Maurantonio. Troppe domande senza risposta. Il ragazzo è caduto dalla finestra, ma i suoi compagni di stanza dicono di non aver visto. Viaggio nella scuola di Padova dove il dramma è stato subito rimosso. Come ha fatto anche il ministro Giannini
Erano, quei 19 anni, nascosti da una barba ancora troppo soffice che la mamma voleva fargli tagliare. Il sorriso dietro agli occhiali da miope nel fisico di chi può ancora pretendere di spezzare il mondo. Anche nella sonnolenta periferia nord di Padova, dove viveva, e in quella del centro storico dove tutte le mattine, con la nebbia e l’umidità che ti piegano le ossa, saliva sull’autobus e andava a scuola, al liceo Ippolito Nievo. Diciannove anni. Un buffetto, un acquerello appena abbozzato. E mentre i colori erano ancora da definire, è volato giù da un balcone, senza un perché. La sbornia di una gita scolastica, forse. Anche se la mamma non ne vuole sapere e neppure l’avvocato.
Interrogativi ancora aperti
Sono trascorsi 35 giorni dalla morte di Domenico Maurantonio e i punti interrogativi sono ancora lì, su una pagina bianca. È stata riempita la casella che indica il suo nome sui tabelloni. È il numero 14 nella classe che era di 22 persone. Gli insegnanti lo hanno promosso quasi a pieni voti, cioè ammesso all’esame di maturità, che non farà mai. Come sono tutti ammessi i suoi compagni di classe e quelli della 5 F, gli altri 20 che hanno partecipato alla gita. Tutti con 9 e 10 in condotta.
Domenico all’esame, quello che accompagna gli incubi della vita a venire, non ci sarà. È volato di sotto, probabilmente privo di sensi, anche se il non aver sentito le urla è troppo poco perché l’indizio si faccia prova come gesto simbolico di umana pietas che nasconde un milione di sensi di colpa. Perché tutto si poteva fare. E molte cose non dovevano essere fatte, a partire da quella lettera che parla di un’esperienza positiva a Milano, in gita all’Expo, con le classi. Chi l’ha scritta, un insegnante di storia dell’arte, deve essersi fatto scappare la penna prima di bersi il cervello. Si è giustificato dicendo che era stata scritta prima, e questo misura la serietà: una lettera sulla gita prima che la gita sia fatta. Non ha torto la mamma di Domenico quando dice: “Io l’ho dato alla scuola, loro dovevano riportarmelo”. Non fa una piega il ragionamento in condizioni normali, figurarsi con quello che è accaduto.
Dicevamo delle domande. Ha scavalcato il balcone, un metro e dieci, da solo? Può essere, ma anche no. Perché è caduto giù che indossava solo una canottiera e aveva gli slip e i bermuda accanto al corpo? Difficile che qualcuno lo scopra. Sul tavolo del magistrato c’è l’ipotesi di un omicidio colposo, né preterintenzionale né volontario, ma è una delle tante ipotesi: chi indaga non può permettersi di lasciare da parte nulla.
A vederli in faccia, i compagni di Domenico, non sono bulletti pseudo metropolitani, piuttosto ragazzini che cercano di aprire le porte della vita. Gente della Padova bene, città che non sarà mai stata il motore di quel Nordest che viveva tra Marghera e il Trevigiano, ma è sempre una città dotta, orgogliosa, con quelle piazze che impongono camminate a mento alto. Com’erano i compagni di Domenico, quelli che oggi non la racconterebbero giusta. In quella scuola siamo entrati, e che questa storia terribile sia stata gestita malissimo lo capisci dalle parole del portiere. “No, la preside non c’è. Sì, forse, ma se c’è, è impegnata. Domenico? Frequentava questa scuola, ma non questo istituto”. Alla richiesta di essere più precisi, la risposta è quella di chiedere al bar. Sì, c’è una succursale a 128 passi di distanza da via San Gregorio Barbarigo, sede centrale dell’istituto. Praticamente una scuola sola, definirla succursale è troppo: via Brondolo, dove Domenico tutte le mattine alle 8 arrivava, è una protesi del complesso principale. Più fatiscente e con meno velleità, ma lo spazio manca anche quassù al Nord, se si parla di scuole.
A riprenderla in mano dall’inizio, questa brutta vicenda, la sensazione è che finisca com’è iniziata: nel buio di una notte. Difficile che un giorno si possa avere la certezza se Domenico sia caduto, si sia buttato o prestato a una bravata o, ancora, che lo abbiano spinto. Non ci sono gli elementi. Il ragazzo, sotto le unghie, aveva residui che potrebbero portare alla ricostruzione di un Dna. Potrebbe esseri graffiato da solo, però. Comunque, c’è chi non aspetta altro che un colpevole da quella prova: ma sono tracce residuali, molto difficili da analizzare. Ritorniamo alla notte, in quella stanza al quinto piano dell’hotel Leonardo Da Vinci, quattro stelle in zona fiera, hinterland milanese. Domenico beve con gli amici. Non c’è dubbio su questo. Si scolano una bottiglia di liquoraccio da due centesimi, una di quelle ricette venete, fatto con succo di prugna e grappa. Nel sangue, dice l’autopsia, aveva un milligrammo di alcol, non una quantità smisurata, ma nello stomaco (i ragazzi avevano anche del whisky) i milligrammi salgono a 3,5, quantità che diventa eccessiva, a rischio di coma etilico. Ma spiegano che era nello stomaco, dunque non aveva ancora preso a circolare. I ragazzi si buttano su un letto della stanza 553. Un letto matrimoniale per tre. Domenico è in mezzo. Nella versione fino a oggi presunta, si alza dal letto, era nel mezzo, ma gli altri due non se ne accorgono, e vola di sotto.
Il black out dalle 5.30 alle 8
Le 5 e mezzo sono l’ora dell’inizio presunto di un black out. Sappiamo con certezza che Domenico è morto a quell’ora, ma il corpo viene trovato da un imbianchino alle 8 del mattino. Sul posto arriva la polizia, e solo in quel momento i ragazzi si accorgono che Domenico è di sotto. Possibile che non abbiano sentito niente? Loro la raccontano così. Domenico muore sul colpo, nessuno lo ferma.
Al suicidio anche la polizia non crede neppure un minuto. Però anche loro, gli agenti della mobile, commettono un errore da principianti: non chiedono al magistrato di turno di fare un sopralluogo subito, lo farà solo la mattina successiva. Intanto nell’albergo si susseguono le ipotesi più stravaganti. Domenico che fa i bisogni dal balcone (ma tracce delle feci si trovano anche nei corridoi dell’albergo), i ragazzi che lo tenevano per le braccia, qualcuno che lo ha spinto. Ipotesi, al momento, senza nessun riscontro. Anche lo slavo che si aggira per i corridoi del primo piano: che, sì, c’era poveruomo, ma non c’entra nulla. Una pista, questa, lanciata agli inquirenti dalla preside della scuola, Maria Grazia Rubini. I ragazzi, soprattutto quelli che erano in camera con Domenico, vengono portati in questura. Ci rimangono dodici ore a raccontare e riraccontare la loro versione. Mai contraddetti, sembra. Ma se parliamo per formula ipotetica, sembra anche che sia inverosimile tutto, dall’inizio alla fine. Non è suicidio, non è incidente né omicidio. Nessuno ha visto né sentito.
Torniamo a Padova, un attimo. Un mese dopo. L’androne della scuola è deserto, nonostante siano giorni di scrutini e risultati. Quei pochi che che ci sono, trascinano i piedi nervosi: perché quell’atrio è una sosta non richiesta nella loro corsa al mondo, e odiano tutti per quei tempi rallentati mentre loro vogliono solo volare. Una corsa che si è interrotta e pare che non si siano resi nemmeno conto di quello che è successo. Ha ragione la mamma di Domenico quando alza quel filo di voce che le è rimasto. “Ho affidato il mio unico figlio alla scuola” – si chiama Antonia Comin, è insegnante anche lei – “per una ‘uscita con pernottamento’. Me l’hanno riconsegnato cadavere. Ho trascorso questi ultimi vent’anni amandolo, curandolo, ascoltandolo, condividendo con lui le sue conquiste, le sue gioie, i suoi successi. Sostenendolo e costruendo con lui ogni momento, perché acquisisse solide radici, ma anche valide ali per volare. È stato lasciato morire, solo e nell’indifferenza generale. Non ci sono lacrime né parole che possano esprimere il vuoto, la privazione, l’assurdità di tutto, il silenzio innaturale, il dolore”. Forse non è proprio così, forse il dolore sì. Ma Antonia Comin ha ragioni da vendere. Hanno delle responsabilità gravi, gravissime, che se fossimo in un Paese normale avrebbero già fatto inquietare le notti di ministri e sottosegretari. Che invece hanno taciuto anche loro. Come se niente fosse accaduto. Stefania Giannini, che poi sarebbe il ministro della Pubblica Istruzione, se l’è cavata con la formula di rito: “Si faccia presto chiarezza”. In ritardo, ovviamente, almeno 20 giorni dopo. Parole che può dire anche un bambino di quattro anni, da un ministro ti aspetti qualcosa di più. Manco le è passato per la testa di presentarsi ai funerali.
I ragazzi, e questo lo sappiamo con certezza, erano nelle loro camere che facevano fuori whisky e liquori, ma nessuno ha fatto controlli. Alle 8 del mattino nessuno sapeva cosa fosse accaduto e uno degli studenti era morto: lì, a terra, stecchito. C’è un garofano bianco sul cancello principale dell’istituto Nievo. Un drappo nero. A guardare bene, accanto alla guardiola c’è anche una foto del ragazzo, la stessa uscita sui giornali il giorno dopo la tragedia. Una foto e un drappo. Poi i tabelloni con i risultati, molto caldo e nessuno che ha voglia di sorridere.
Ironico, serio e taciturno
Non che fosse un ragazzo che colpiva, Domenico. Cioè, nessuna stravaganza, era uno dei tanti. I compagni di classe dicono che “al secondo anno di liceo lui aveva già la morosa, non era uno sfigato. Era il più saggio, ironico, leggero, sobrio nei modi e nel comportamento”. Lo spiega il barista che prepara le colazioni a tutti: “Se l’ho visto, non lo ricordo. Ma da qui passano tutti”. 128 passi e arrivi alla succursale, quella della 5 E, la classe di Domenico. In direzione opposta, ad altri 100 metri di distanza, c’è il centro storico, cuore di Padova: Piazza dei Signori. Afosa, come poche città italiane riescono a esserlo, freddissima invece nei mesi invernali causa venti in arrivo da Scandinavia e Balcani. È stata, come e quasi quanto Firenze, la capitale del Rinascimento, sicuramente ha avuto una delle scuole di pittura più importanti d’Italia. L’università è, per età, più giovane solo di Bologna nel mondo occidentale. È la città del Santo, inteso come Sant’Antonio. E soprattutto è stata, ma siamo agli anni recenti, una delle capitali della Democrazia cristiana, quella che in Veneto faceva cappotto tanto quanto oggi lo fa Luca Zaia con la Lega. Bacchettona è rimasta, i democristiani sono stati sostituiti dal Carroccio che assomiglia molto al governatore Zaia e molto poco a Matteo Salvini.
Le indagini dell’avvocato
Il legale della famiglia è stato a Padova in questi giorni, ha fatto i controinterrogatori dei ragazzi, segue una sua pista. “Quello che posso dire è che questi ragazzi non erano amici di Domenico”, spiega Eraldo Stefani, del foro di Firenze. “È la lacuna più grossa, quell’assenza di umana solidarietà, anche e soprattutto davanti a quello che è accaduto. Sul fronte investigativo posso dire che i ragazzi dicono di aver bevuto insieme, è accertato, lo hanno detto tutti. Domenico aveva una dose minima di alcol già in circolo nel sangue, ma la maggior parte, una quantità massiccia, nello stomaco e non ancora assorbita. Bene. Questo vuol dire che aveva bevuto pochi minuti prima di cadere di sotto. Come fanno i ragazzi a dire che non hanno visto niente? Se Domenico beveva, anche loro bevevano, dunque erano svegli. No, dicono che erano già a letto da un pezzo. Questo non mi torna ed è su questo punto che io faccio le indagini. Ho chiesto ai ragazzi più volte di venire a parlarmi, non l’hanno fatto, sono io che ho dovuto cercare loro. In occasione del trigesimo, della messa in ricordo di Domenico, al contrario dei funerali, erano tutti presenti, ma continuo a credere che sia una presenza formale più che sentita. La realtà è che non erano amici. E questo mi dispiace. Che ragazzo era Domenico? Serio, molto bravo a scuola senza farlo pesare a nessuno. Preparato, tranquillo. Un ragazzo al quale non si può non voler bene”.
I genitori del ragazzo sono ancora chiusi nella loro casa, hanno ritrovato la parvenza di una normalità che normale non può essere. Perché il loro unico figlio non c’è più. “Siamo orgogliosi di lui, lo hanno ammesso agli esami quasi a pieni voti. Non siamo andati a vedere i tabelloni, ci hanno mandato una foto, eravamo d’accordo che doveva andarci lui”. Viene il nodo alla gola a sentirli parlare. Quasi aspettassero una telefonata, qualcuno che dica loro di svegliarsi perché è stato solo un brutto incubo, è tutto passato. Si torna alla vita. Non sarà così. Perché Domenico è volato giù per quindici metri e nessuno che ancora abbia spiegato come sia potuto accadere. Come possa essere che il loro ragazzo, mai un eccesso o un colpo di testa, se ne sia andato nel buio di una notte senza che nessuno lo abbia visto allontanarsi. Aveva 19 anni, accidenti. E a 19 anni non si muore così, soprattutto se hai la testa sulle spalle, le idee chiare, la voglia di vivere. Se sei in una gita che avrebbe dovuto concludere un anno scolastico perfetto, la maturità e poi una strada diversa, l’università, il lavoro, la famiglia. Tutte cose che quel volo si è portato via. Insieme con il sorriso di Domenico. Non ci sono spiegazioni. Solo preghiere. E la speranza che squilli il telefono: svegliatevi, non è accaduto nulla di tutto quello che vi hanno raccontato, il vostro ragazzo è sul pullman, rientra a casa. Questo doveva essere l’epilogo, non una brutta pagina piena di buchi neri, di buio. E di una periferia di Milano che sa essere fosca anche a inizio estate.