il Fatto Quotidiano, 12 giugno 2015
«Sono per il mondo dell’arte quello che Uber è per la corporazione dei tassisti. E me ne infischio». Stefan Simchowitz, ritratto di un mecenate satanico. Appartiene alla razza degli speculatori: finanzia giovani talenti, poi compra in massa le loro opere e le rivende rapidamente ad attore e registi con enormi utili. «È il fast-food dell’arte contemporanea»
Già dalla biografia si capisce che Stefan Simchowitz, nato in Sudafrica nel 1970, produttore cinematografico indipendente e collezionista d’arte, poco ha a che vedere con i tipici mercanti d’arte. Simchowitz è, al contrario, la loro bestia nera ed è stato il primo a intuire che Internet e i social media potevano rivoluzionare un mondo che sembrava fermo all’Ottocento. Il critico d’arte del New York Magazine l’ha ribattezzato l’“Imperatore Sith”, chiaro riferimento al cattivo di Star Wars e Christopher Glazek, autorevole firma del New York Times, l’ha definito “Il mecenate satanico”. Ma come si spiega tutto questo odio? Il fatto è che Simchowitz appartiene alla razza degli speculatori, dei razziatori del mercato che acquistano in massa opere di giovani artisti e le rivendono rapidamente con enormi utili. “Sono per il mondo dell’arte quello che Uber è per la corporazione dei tassisti – ha detto a un giornalista di Le Monde che l’ha incontrato a Los Angeles – Non mi interessa essere amato. I mercanti d’arte misurano le parole, non vogliono perdere i clienti. Io me ne infischio, sono un autentico narcisista. Per fare bene le cose ci vogliono una buona quantità di narcisismo e un pizzico di paranoia”.
Parlando cita Diogene, Socrate, Geoffrey Chaucer, Herman Hesse, l’impero romano. È un gran parlatore. È cintura marrone di karate. “Se mi attaccano debbo sapermi difendere”, si giustifica. “Il denaro non è il mio Dio”, aggiunge e ricorda il titolo della sua tesi in economia a Stanford: “L’illustrazione del potere a Wall Street, Scarface e Il Padrino”. Il suo metodo è quello degli antichi mecenati. Individua giovani di talento, li aiuta finanziariamente, trova loro un atelier, compra le loro opere e le rivende nel giro di poche settimane a collezionisti quali Orlando Bloom e altri attori e registi. “È il fast-food dell’arte contemporanea”, commenta il noto gallerista parigino Frank Elbaz.
Per giudicare le opere che lo interessano il metro sono tre semplici parole: bello, elegante, armonioso. Visitando a Venezia la mostra Slip of the tongue presso il nuovo spazio espositivo di François Pinault a Punta della Dogana, si ferma davanti a una scultura. “Chi è l’autore?”, chiede. “Un francese, Jean-Luc Moulène”, gli rispondono. “Quanti anni ha?”. “È troppo vecchio per lei”. Tanto gli basta per passare oltre. Al momento della sua scuderia fanno parte una mezza dozzina di giovani promesse. Secondo il New York Times la sua collezione conta 1500 opere d’arte per un valore di circa 30 milioni di dollari. Gli artisti della generazione post-Internet sono i suoi preferiti, ma sono anche i meno commerciabili. Da tre anni ha rivolto la sua attenzione all’arte africana cercando su Google due parole: “arte” e “Africa”. Ha scoperto e acquistato le opere del ghanese Ibrahim Mahama che oggi espone alla Biennale di Venezia. “Forse sarebbe più giusto definirmi un colonialista piuttosto che un opportunista”, ironizza. Ma è soprattutto con i pittori astratti che ha fatto fortuna. Nel 2011 ha scoperto il giovanissimo colombiano Oscar Murillo in occasione di una collettiva organizzata presso la galleria David Kordansky a Los Angeles. Senza un attimo di incertezza acquistò cinque sue opere per 5000 dollari l’una. Oggi ciascuna di quelle opere ha una quotazione superiore ai 400.000 dollari. Ma alcuni suoi protetti gli hanno voltato le spalle. Tra questi l’americano Parker Ito. “Mi ha aiutato quanto avevo 26-27 anni e mi sono trovato nella condizione di dovergli mostrare gratitudine per sempre”, dice un artista che preferisce rimanere anonimo. “Era una specie di patto faustiano. Non potevo rimanere in quella prigione”.
“Ma chi li ha mai obbligati!”, risponde piccato Simchowicz. “Io corro tutti i rischi, investo su di loro somme considerevoli, fornisco i materiali, trovo le gallerie, contatto i critici e gli acquirenti. Senza di me avrebbero continuato a fare arte per puro diletto. Con me sono diventati professionisti ben pagati”. Simchowicz è un provocatore. Ogni giorno posta messaggi sui social. Il mondo dell’arte? “Pieno di ignoranti che nulla sanno di arte e di economia”. Le scuole d’arte? “Insegnano come si diventa dei falliti”. Gli artisti? “Intoccabili, presuntuosi e moralisti. Ma basta parlare con un gallerista e vi dirà il prezzo di ciascuno di loro”. Tutti lo detestano, ma quasi tutti fanno affari con lui. “Tutti lavorano con lui” – confida un mercante – ma non se ne vantano. È come andare in una casa di appuntamenti. Quando esci cammini sfiorando i muri sperando che nessuno ti riconosca”.