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 2015  giugno 12 Venerdì calendario

Addio a Ornette Coleman, il grande innovatore che con il suo sax liberò il jazz. Stroncato da un attacco di cuore a 85 anni. Cominciò con gruppi di blues, poi la svolta alla fine degli anni ’50 con il disco “Free jazz”. Amava stupire, sempre in nome dell’improvvisazione

Ornette Coleman, il grande innovatore del sassofono contralto, è scomparso ieri a Manhattan, dove abitava, per arresto cardiaco. Aveva 85 anni. Era stato tra i fondatori di una corrente stilistica a lungo discussa, il «free jazz»; solo negli Anni 80 si è riconosciuta la purissima poesia del suo strumento. E si può dire che la qualità maggiore di questo musicista è stata la coerenza con cui ha esibito al mondo il canto intenso della propria musica.
Nato a Fort Worth, in Texas, il 19 marzo 1930, aveva appreso da solo, adolescente, il sassofono contralto proprio mentre questo strumento veniva rivoluzionato da Charlie Parker. Ventenne, si trasferì a Los Angeles, dove trovò musicisti avventurosi disposti a seguire le sue idee. Ma solo nel 1958 potè incidere il primo disco a proprio nome, «Something Else!!!!», con quattro punti esclamativi. E davvero la sua musica era «qualcosa di diverso»: nell’intonazione del sassofono, dolente come un grido inascoltato; nell’intensità delle melodie; nei brani indifferenti alle regole della tonalità. Era una musica che affondava le radici nel folclore dei primi blues, ma al tempo stesso creava le logiche del jazz futuro. Nel novembre 1959 il quartetto del sassofonista (con tre compagni destinati come lui alla celebrità: Don Cherry, Charlie Haden e Ed Blackwell) fece il suo debutto a New York, dividendo il mondo della musica. Un anno dopo Coleman registrava il disco che avrebbe dato il nome a un intero movimento, «Free Jazz», rivoluzionaria improvvisazione collettiva lunga più di mezz’ora.
In effetti il «jazz libero» era nell’aria, e altri musicisti stavano inventandone la sintassi. Non è vero, infatti, che si trattasse di musica anarchica e senza regole; semplicemente lasciava molta libertà ai suoi interpreti su come queste regole andassero interpretate. Per Coleman si trattava di far sì che il canto spiegato avesse il sopravvento, e così fece per tutta la vita. Nel trio ancor più libero guidato a metà degli Anni 60 iniziò a suonare anche la tromba e il violino: provocatoriamente, disse qualcuno, visto il loro uso anticonvenzionale, ma in effetti per «liberarsi» anche dalle regole che inconsapevolmente il sassofono, strumento che ormai conosceva fin troppo bene, gli imponeva.
Venne poi il quartetto con l’altro sassofonista Dewey Redman e nel 1972 l’incisione con un’orchestra sinfonica di un grandioso affresco sonoro, «Skies of America», più volte ripreso nei decenni seguenti.
Nel 1977 ancora una svolta: un gruppo elettronico, Prime Time, con due chitarre, due bassi, due batterie (una era suonata dal figlio Denardo, che lo affiancava da quando aveva dieci anni). E con questi suoni il «padre del free» venne finalmente riconosciuto dall’establishment, grazie soprattutto a «Song X» inciso assieme alla star della chitarra Pat Metheny e a «In All Languages», in cui gli stessi temi erano interpretati sia dal Prime Time sia dal ricostruito quartetto degli esordi. Con gli Anni 90 Coleman è tornato ai suoni acustici, affiancato fra l’altro dal pianoforte (Geri Allen, Joachim Kühn) e da due o anche tre contrabbassi. Fino all’ultimo non ha cessato di stupire; lo ha fatto soprattutto con la purezza e l’intensità del suo lirismo.