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 2015  giugno 12 Venerdì calendario

Alla stazione Tiburtina di Roma lo sgombero improvvisato dei migranti, tra urla e sirene spiegate. Lo sfogo di un poliziotto: «La faccenda è tutta politica e invece qui mandano noi. Ma questa è una guerra che non ci appartiene». Una brutta copia di Lampedusa

L’ultimo, il ventesimo, lo bloccano in tre: due agenti lo tengono per le braccia, un terzo per i piedi, scalzi. Lui ha lo sguardo terrorizzato, gli esce sangue dal naso, urla, scalcia ma ormai non può fare altro. Lo caricano a forza sul pullman azzurro della polizia parcheggiato in Largo Mazzoni, 200 metri dalla luccicante stazione Tiburtina. La porta anteriore si chiude. Dentro, appoggiato al vetro, un ragazzo non smette di piangere mentre il mezzo si muove scortato da tre volanti a sirene spiegate. Direzione: ufficio immigrazione. È l’ultima immagine di una sorta di sgombero improvvisato, un’azione della questura intervenuta per tamponare l’emergenza che da cinque giorni ha trasformato quest’angolo di Roma, a ridosso del cimitero del Verano e della zona universitaria, nella brutta copia di Lampedusa. Peggio di Mineo e degli altri centri per rifugiati, perché qui non c’è un tetto, c’è un solo bagno (di quelli “a gettone”) e il materasso è lo stesso per tutti: l’asfalto del piazzale. O il marciapiede. O la terra, sotto i cespugli.
Adesso, dopo l’arrivo della polizia, non c’è più nessuno. Spariti nel giro di tre minuti un centinaio di eritrei, somali, sudanesi. Gli altri 4 o 500, probabilmente, torneranno per le 21, quando Caritas, Sant’Egidio e altre associazioni distribuiscono un pasto. Per terra restano buste di plastica, bucce di banana, un torsolo di mela, qualche spazzolino. E poi scarpe e cartoni usati come giaciglio per dormire o per pregare. Questo stavano facendo in tanti, prima dell’arrivo della polizia: radunati in gruppetti, divisi per nazionalità, metà cristiani e metà musulmani. A fumare (gli adulti) o a correre tra la sporcizia (i bambini).
Sono i “transitanti”, come vengono definiti in gergo e a Roma ne arrivano, dati del Campidoglio, un migliaio ogni quattro giorni. Di solito vanno via o si inabissano in un circuito di clandestinità senza che la città quasi se ne accorga. Stavolta, però, continuano ad accumularsi, bloccati nella loro speranza di raggiungere il nord Europa dalla decisione del governo tedesco di sospendere il trattato di Schengen fino al 15 giugno per il G7 di Monaco.
Loro, gli eritrei e i somali, gli etiopi o i sudanesi, nemmeno lo sanno. Non parlano una parola di italiano, a stento sanno l’inglese.
“Try”, dice Taher. Ha 24 anni, il naso spellato per il sole preso in mezzo al mare. Viene dal Sudan, da un paesino al confine con l’Eritrea. Ha attraversato il deserto, poi è arrivato in Libia e, da lì, verso l’Europa attraverso il Mediterraneo. Stava su un barcone: «Saremmo stati 95 – dice – ci ha soccorso una nave tedesca e ci ha portati in Sardegna». Accanto a lui e ai suoi connazionali, zainetti con la bandiera dei 4 mori. Da lì sono arrivati a Roma. «Ora? Vorrei andare in Svizzera a fare il meccanico. Lui – indica il suo amico con un gilet di pelle marrone e un cappellino in testa – invece vuole fare l’autista. Spero che l’Europa ci aiuti, inshallah», sorride.
Loro due sono i primi a scappare appena vedono avvicinarsi gli agenti della polizia, tutti coi guanti bianchi e neri. Qualcuno in borghese, qualcuno in divisa, con calma, provano a parlare inglese: «No problem, come with us. You good, only pictures and you come back here». Ma il problema è proprio questo: nessuno vuole essere fotografato e identificato. Sono riusciti a non farsi prendere le impronte al loro arrivo in Italia e adesso vogliono restare “fantasmi”, fino alla frontiere, sperando di non essere respinti. Il Campidoglio non si vede: «Stiamo seguendo la situazione. Serve un tavolo con Prefettura e Viminale. La questione è internazionale», dice l’assessorato ai servizi sociali. Si affaccia il comandante dei vigili urbani, Raffaele Clemente, in polo azzurra. Allarga le braccia: «Sono venuto a rendermi conto della situazione».
Poi va via e arriva la polizia. Nel fuggi fuggi generale, restano appena in 20. Gli agenti non vorrebbero alimentare tensioni ma qui le difficoltà di comunicazione complicano il tutto. Alla fine, anzichè accompagnarli sul pullman li spingono, li trascinano. I ragazzi provano a scappare, fanno resistenza, sgusciano dalle mani dei poliziotti che ormai hanno tirato fuori le manette. Qualcuno lo bloccano a terra, ginocchio sulla schiena: «Se stai buono non ti faccio male», dice un agente. «My sister», grida lui. Un paio cadono e si feriscono, tre-quattro iniziano a urlare più forte. Non c’è un mediatore culturale, qualcuno che possa provare a tranquillizzarli.
La Croce Rossa, che da giorni presta servizio medico con un mezzo a 500 metri da lì, non sa nemmeno cosa sta succedendo. Più tardi, il medico a bordo del camper, Vincenzo Martorella, racconterà: «È più di un anno che seguiamo l’emergenza rifugiati e posso dire che tutto è peggiorato». Lui li visita e li trova «tutto sommato sani. Hanno passato 6 mesi di traversata, dal deserto a qui. Qualcuno ha la scabbia, ma si cura. Per noi è la routine. Sembra brutta ma non si prende con una stretta di mano». Ha imparato qualche parole di dialetto tigrino, quello che si parla in Eritrea ed Etiopia. Davanti alla Tiburtina servirebbe lui ma non si può muovere. Di là, quando finisce lo sgombero, arrivano i mezzi dell’Ama per ripulire il piazzale. Un poliziotto, prima di andar via, si sfoga: «La faccenda è tutta politica e invece qui mandano noi. Ma questa è una guerra che non ci appartiene».