il Fatto Quotidiano, 11 giugno 2015
Se la nostalgia degli anni Ottanta fa impazzire il web. Così un post di Benedicta Boccoli ricorda i momenti migliori dell’adolescenza dei quarantenni di oggi e i successi di chi ne ha di più. Per Arbore erano gli anni in cui si poteva tornare a sorridere e se Boncompagni non ne ha memoria, Freccero ne parla come un momento di eccitazione collettiva. E D’Agostino, che in quel periodo è diventato famoso, parla di un decennio da rimpiangere
Ottantamila condivisioni su Facebook. Un plebiscito autentico nonché inatteso, perché l’articolo non è per nulla politico. Uno dei post con più like nella storia del sito del Fatto Quotidiano, portale reputato peraltro troppo impegnato e poco frivolo, lo ha scritto Benedicta Boccoli il 7 giugno. Si intitola “Anni 80: noi ragazzi senza Internet che guardavamo Giochi senza frontiere”.
È un’elencazione delle piccole e grandi cose che hanno caratterizzato il più edonistico tra i decenni recenti. Gli Afterhours cantavano che non si esce vivi dagli anni Ottanta. Benedicta Boccoli, che verosimilmente sarà la prima a essere stupita da un successo simile, vira invece sulla nostalgia: “canaglia”, probabilmente. Dopo un incipit evocativo (“Noi ragazzi degli anni 80, noi ragazzi senza il cellulare, noi ragazzi senza internet. Se permettete oggi parlo di noi”), evoca rituali semplici (“Il latte caldo la sera con il pane inzuppato”), usanze bizzarre (“Spalmare il Vinavil sulle mani per poi togliere la pellicina”), aneddoti personali (“Gigi Proietti a cena che mi insegna a fare le pernacchie”) e folgorazioni indimenticabili (“Le lacrime di Pertini ai funerali di Berlinguer”).
Il post non riporta soltanto madeleine degli anni Ottanta, piluccando anche nel prima (i Settanta) e nel dopo (i Novanta del Grande Fratello, “che tutti vedevano senza farlo sapere troppo in giro”). Più che proporre una miscellanea del decennio evanescente e frivolo, la Boccoli propone gli highlights della memoria per chi oggi ha 40 anni o giù di lì. Buona parte del successo dell’articolo deriva probabilmente dalla “fresca vulnerabilità” di chi fino a ieri si sentiva “per sempre giovane” come Bob Dylan e adesso, con l’arrivo degli “anta”, si sente vulnerabile. Così vulnerabile da cominciare a guardare al passato, rimpiangendo quasi tutto che accadeva quando era ragazzo e pensando con una sorta di saudade benevola ai bei tempi (forse) con “le racchette da ping pong con la plastica a puntini” e “la biro bic usata come cannuccia per sparare chicchi di riso”.
Null’altro che umana memoria, malinconia e appunto nostalgia: ogni generazione, prima o poi, si volta indietro e fa ciò che Kasdan fece ne Il grande freddo, Verdone in Compagni di scuola e Branagh ne Gli amici di Peter. Forse però c’è dell’altro. È ardito rimpiangere tout court gli Ottanta. Nel 1992, in uno dei suoi monologhi per il programma Su la testa!, Paolo Rossi riassumeva: “Viviamo anni difficili.
Gli anni Settanta erano gli anni di piombo, si viveva male e sembrava di aver toccato il fondo. Poi sono arrivati gli anni Ottanta, e sono stati veramente di merda. Ma adesso è peggio, molto peggio: anche la merda sta prendendo le distanze dagli anni Novanta”. La citazione, da sola, fa capire quanto il ricordo del passato sia soggettivo e quanto al tempo stesso ogni decennio abbia portato con sé in Italia – per via di una specie di slavina morale e culturale – la sensazione che al peggio non ci fosse mai fine. L’amore per gli Ottanta, decennio in cui si passava con velocità schizoide dall’altissimo al bassissimo (dalla tivù commerciale e dal nascente cinepanettone a Creuza de mà e C’era una volta in America), quasi che tutto fosse divenuto un immenso juke-box a uso e consumo di cazzari e paninari, è però forse anche il segno di un grande senso di vuoto. Un gigantesco smarrimento collettivo che caratterizza l’oggi. La piattezza, la non appartenenza. L’assenza di punti di riferimento. Le praline dell’ovvio spacciate per filosofia. E il respiro corto, sempre corto, fatalmente corto.
Così, alla fine, basta un semplice post – novello balsamo tecnologico – per ripensare a quando non eravamo per nulla re, ma eravamo comunque e pur sempre (forse) vivi. Accompagnati da musica spesso tremenda, dal reaganismo bolso e dalla Milano da bere, però se non altro colorati e confusamente vitali. Non ancora smarriti e un po’ finali, per quanto oggi postmoderni e si direbbe digitali.
Andrea Scanzi
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"Io sono il profeta degli anni Ottanta”: Renzo Arbore li ricorda bene, erano quelli delle sue trasmissioni più famose, come Quelli della Notte e Indietro tutta. Ma erano anche molto altro. “Erano gli anni in cui finalmente si poteva tornare a sorridere. C’era una bella creatività e un’atmosfera spensierata. Era il periodo della rinascita dopo le sofferenze degli anni di piombo, quelli durante i quali per paura non si poteva neanche passeggiare in centro. Io non uscivo neanche. Intanto l’economia risaliva, non era più reato comprare un pullover di cashmere ed era l’età della Milano da bere. Ovviamente c’erano le esagerazioni e le controindicazioni, ma finalmente si respirava un’aria pura, senza nuvole all’orizzonte. Abbiamo capito che le ideologie fino a qiel momento protagoniste potevano essere sbagliate e fallimentari. E non mi riferisco solo alla politica: la qualità della vita, in generale, era migliore. E questo determinò un diffuso rinnovamento. Da un punto di vista artistico ci fu una rinascita musicale. Ma anche le arti figurative e la televisione hanno vissuto un momento d’oro. Fu sdoganata l’allegria. chi sorrideva non era più colpevole. Si potrà pensare che io sia poeta in patria, perché per me furono anni fondamentali, ma non sono l’unico a pensarla così. Dopo il decennio precedente, che artisticamente non aveva prodotto granché se non proteste, finalmente si viveva di nuovo”.
V.d.S.
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Avevo già una settantina d’anni negli anni Ottanta”. Scherza, Gianni Boncompagni (che oggi di anni ne ha 83) ripensando alla sua vita in quel periodo. “Chi c’era negli anni Ottanta? Sa, mica me li ricordo… Mi ricordo i Sessanta, i Settanta, i Novanta. Ma gli Ottanta: proprio no”. Poi torna serio. “Lavoravo tanto. Ero alla Rai, facevo Domenica In, giravo il mondo. Ero uno schiavo del lavoro e la tv era completamente diversa. Non c’erano gli orribili talk show di oggi in cui, ogni giorno, ci mostrano sempre le stesse cose. Pensi, le tribune politiche sono tutte uguali: hanno stufato e sembrano barzellette. C’erano, invece, molti spettacoli, belli o brutti che fossero. E bisogna tener conto del fatto che non c’era concorrenza, Mediaset era poca roba. C’erano Raiuno eRaidue e gli italiani li guardavano: perché guardavano in generale molta tv”. Un periodo di scoperte, quindi? “Macchè, eravamo quasi un popolo di semi analfabeti – dice ridendo – L’Italia era una nazione di democristiani divisi tra messe e grandi messe. Una nazione un po’ spenta. La gente non leggeva i giornali, non seguiva la cronaca. Non si parlava quasi di Mafia”. Non crede però che gli italiani provino nostalgia. “La società di oggi è un po’ più luminosa”. Ma il semianalfabetismo resta, anche dopo 30 anni. “Pensi un po’: come si può essere fissati con una cosa orribile come i selfie?”.
V.D.S
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“Un periodo pazzesco: l’ho vissuto benissimo, e non sono l’unico del resto. Possiamo solo studiare e rimpiangere quel decennio”. Roberto D’Agostino negli Anni Ottanta è diventato famoso con “Quelli della notte”, lo storico programma di Renzo Arbore simbolo di un’epoca. “Lì per me è cominciato il grande successo”. Ma non solo per questo il suo ricordo è totalmente positivo: “I criticoni a posteriori hanno funestato quel periodo con i loro giudizi sulla politica, su Craxi e le tangenti. Ma la verità è che sono stati anni bellissimi. La cultura, l’arte, il design, l’architettura: era tutto straordinario. Si respirava un’aria effervescente, è stato un periodo davvero florido per l’Italia e per il mondo”. Anche i vizi e gli errori del tempo possono essere perdonati, se inquadrati nel giusto contesto: “Ricordano De Michelis che andava in discoteca. Ma se lo faceva è perché il nostro mondo aveva appena scoperto la notte, il ‘nightclubbing’. Eravamo liberi e felici”. Da tutti punti di vista, anche da quello sessuale: “È stato un decennio di fregne e di cazzi, l’impero dei sensi. Non sapevamo dove sbattere la testa, ce la siamo davvero goduta”. Così di quegli anni indimenticatiD’ago non butta via nulla: “Era tutto bello, non c’era niente di negativo. E sapete che vi dico? Visto la classe politica che ci ritroviamo oggi, neppure Craxi era così male”.
L. vend.
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“Come tutte le cose belle, non sono durati in eterno. E ci hanno fatto male”. Carlo Freccero, che negli Anni Ottanta lavorò al fianco di Silvio Berlusconi sui palinsesti di Canale 5 e Rete 4, e visse da protagonista la rivoluzione mediatica e televisa, ricorda così il periodo che ha cambiato l’Italia. “Venivamo fuori dall’inferno degli Anni di piombo, fu un momento di liberazione, di eccitazione collettiva. Una sorta di droga”. Le droghe, però, creano dipendenza “A me piace parlare di ‘eutanasia del bene comune’: l’io prese il posto del noi all’improvviso. Niente più impegno, morale, preoccupazioni: si pensava solo a se stessi, e solo al presente. Allora si stava bene, ma alla lunga un simile atteggiamento ha sempre delle conseguenze”. È da lì che – secondo Freccero – nascono tanti dei problemi dei nostri giorni: “La crisi economica, il debito pubblico, la corruzione. Persino l’Aids, che compare in quegli anni, è un simbolo: la malattia del piacere, che poi avrebbe fatto milioni di morti. Un po’ come quel periodo ha fatto danni: le cose più appariscenti nascondono sempre un incubo”. “Pensavamo di aver raggiunto il Paradiso in terra. Era un’illusione, visto ciò che ne è seguito. Ma in fondo – conclude – era vero, perché l’Italia e gli italiani non sono più stati così bene. Anche se era un bene effimero”.
L. Vend