il Fatto Quotidiano, 10 giugno 2015
Schumacher, la Ferrari, gli incidenti e i segreti del potere in Formula 1. Parla Jean Todt in una lunga intervista al Fatto
Alla guida – dell’intervista – c’è lui. Dal primo contatto (“ho saputo che fa domande su di me, me le chieda direttamente”) al walzer delle risposte, date, quasi per principio, in ordine sparso.
Jean Todt, presidente della Fia ed ex numero uno di Ferrari, viene a sapere che un quotidiano italiano sta indagando sui suoi tanti conflitti d’interesse, a partire dalla nuova avventura della formula Elettrica, dove a costruire le costosissime vetture ecologiche è una compagnia guidata dal socio di suo figlio Nicholas.
“Mi han detto che vuole fare uno scandalo” dice fissandoti senza tregua coi suoi occhi celesti, due fessure con una capacità sorprendete di restare spalancate, tanto che distogliere lo sguardo è un’impresa e il quaderno con gli appunti rimane in borsa per quasi due ore.
E Todt, con al polso un braccialetto africano, col suo inconfondibile accento francese e i modi cavallereschi, racconta la vastità della comunità che presiede: “Noi, come Fia, abbiamo membri in 150 paesi: 19 milioni su 80 in Germania, 7 su 23 milioni in Australia, per farle capire. Anche a livello politico, questa è una forza importante. Insomma, lei può chiedermi tutto quello che vuole, ma se non le dispiace le do qualche suggerimento”.
Prego, Jean Todt.
A fine aprile il segretario dell’Onu, Ban Ki Moon, mi ha incaricato di implementare la sicurezza stradale. Lo sapeva che muore una persona ogni 30 secondi? (All’assistente: “datele una brochure! Safety road, brochure, ora!”). Ho messo in piedi un team pazzesco per risolvere il problema, ci sono dentro tutti, dal presidente della Coca Cola a quello di General Motors. E sa perché?
Dica.
Io mi circondo solo dei migliori. Molte persone vivono con la paura di perdere il potere. Per questo, spesso, i manager si circondano di persone mediocri: così possono stare tranquilli. Non io. Io voglio tutti al mio livello: se vuoi essere il più forte non ti puoi mai rilassare. Ecco, tutti i membri di questi team sono numeri uno. Fino a oggi è mancato un leader che guidasse la lotta agli incidenti stradali, credo spetti alla Fia occuparsene.
Nel suo passato c’è una lunga carriera da co-pilota. È nato allora l’interesse per questa causa?
Glielo dico dopo. Intanto parliamo dell’Onu: grazie a questa nomina ho un’influenza più ampia, posso trattare direttamente coi governi, e portare a casa risultati.
Per esempio?
La cura per l’Aids come di tante malattie non esiste, ma per la sicurezza stradale c’è eccome. È una ricetta a base di educazione, applicazione delle leggi, infrastrutture e veicoli sicuri. Se mettiamo tutto a posto, teoricamente, potrebbero non esserci più incidenti.
Molte associazioni però protestano: come può lei, che ha sempre promosso la velocità in sport estremi, rappresentare la sicurezza?
Glielo dico dopo. Ora le rispondo alla domanda di prima. Sia da copilota sia da capo della Peugeot prima e Ferrari poi ho visto tanti incidenti, sono passato da tanti ospedali. Mi ha colpito. Ora che ho avuto successo, devo fare una scelta: o provo ad averne ancora di più oppure cerco di fare altre cose. Io mi sento in debito e voglio ridare. Che poi è il motivo per cui 12 anni fa volevo fondare un istituto ortopedico, solo che poi ho capito che il motore conta più del telaio.
E così ha inaugurato l’istituto parigino del Cervello e del Midollo Spinale.
Sì, perché il cervello conta più delle ossa. Oggi abbiamo 600 ricercatori e siamo il numero tre in Europa (all’altro assistente: “Una brochure sul centro, veloce!”). All’epoca ero ancora in Ferrari e ho chiesto a Michael (Schumacher, ndr) e alla mia signora di diventare ambasciatori. È una posizione importante, molto ambita, e non solo da me. La volevano in tanti: ecco da dove vengono le critiche di cui parlava prima.
L’hanno attaccata anche quando si è candidato alla presidenza della Fia.
Appunto. Certe persone passano le giornate a crearmi problemini. Per candidarsi servono almeno 25 supporter, e i miei oppositori non hanno raggiunto nemmeno la soglia minima. Infatti poi hanno avuto tempo per scagliarsi contro di me: hanno inventato Mr. Speed (signor velocità, ndr), Mr. Supporter dell’alcol. A me non piace bere. Sono astemio. Mai ingerito un goccio in vita mia.
Sta rispondendo alla domanda di prima?
Brava: come faccio io a essere il volto della sicurezza stradale dopo aver passato una vita a 300 all’ora?
Senza contare che i marchi di alcolici sponsorizzano i gran premi e piazzano il loro brand sulle vostre automobili.
Eh, ma questo non è vietato.
Ma è opportuno?
L’alcol fa parte dell’industria, non puoi impedirlo. Poi, è ovvio che è una circostanza ambigua. E questa ambiguità ha permesso a certi miei nemici, che per carità sono un gruppettino limitato, di attaccarmi. Ma sono una percentuale assolutamente irrilevante rispetto a tutta la gente che è contenta della mia nomina. La mia soluzione è di far sborsare gran soldi alle aziende che producono alcol per creare un fondo globale per la sicurezza stradale.
Resta il fatto che con una mano pubblicizzate i drink e con l’altra promuovete la sicurezza.
E va bene, sarebbe meglio evitare. Per me sarebbe comodo dire che non li voglio più. Ma la Williams poi perderebbe milioni, idem la Mc Claren. In questo mondo non esiste il bianco o il nero. La Formula 1 è un piccolo parco dorato dove tutti se ne fregano di chi sta male, come i bambini del Nepal. Io li obbligo.
Lei e la sua compagna, l’ex bond girl Michelle Yeoh, eravate a Kathmandu durante il terremoto.
Deve vedere il lavoro eccezionale che sta facendo lì Michelle, si sta occupando a tempo pieno di portare aiuti. La Bbc ha fatto un reportage bellissimo con lei in questi mesi. (All’assistente: “fatemi vedere, subito, il video di Michelle in Nepal. BBC, Michelle, Nepal, mettetelo sull’I-pad, ora!”).
Parliamo della formula Elettrica. Ha debuttato da poco e lei è il suo sostenitore numero uno.
È una neonata, non ha neanche un anno di vita. Ma è una bimba campione, che sta diventando grande. Le corse elettriche dentro le città hanno un potenziale enorme. Il mondo sta cambiando: troppo inquinamento, troppo traffico. E la propulsione elettrica è la risposta. C’è un interesse importante a livello di squadre, sponsor, costruttori, e pubblico. Correremo a Parigi a Les Invalides, a Red Square a Mosca…
A Roma?
All’epoca ne avevamo discusso ma il nuovo sindaco, Marino, non gradisce. Peccato.
Intorno alla Formula E c’è anche un giro d’affari di decine di milioni che voi gestite come vi pare.
Noi siamo i regolatori dello sport, e abbiamo dato un appalto al signor Alejandro Agag (genero dell’ex premier spagnolo Aznar, ndr). Agag ha lo stesso ruolo nella Formula E che Bernie Eccleston ha nella Formula 1. È stato lui a scegliere fornitori e sponsor, non noi, che abbiamo in mano solo la parte tecnico-sportiva e ci limitiamo a supervisionare.
È una coincidenza che Agag abbia concesso l’appalto per la costruzione di oltre 40 auto elettriche a Frederick Vasseur, socio di suo figlio Nicholas?
Vasseur è socio di mio figlio in un’altra società, l’Art Grand Prix: ne hanno il 30% ognuno, assieme al Principe del Bahrain. Quando è nata la Spark Racing Technology, per evitare polemiche, mio figlio si è tirato indietro: non è in alcun modo coinvolto in questa avventura.
Glie l’ha chiesto lei di farsi da parte?
No: essere il figlio di Jean Todt dà vantaggi e svantaggi, ma alla fine queste decisioni spettano a Nicholas. Stavolta ha voluto starne fuori per evitare ogni tipo di critica. Se non l’avesse fatto, io mi sarei limitato, quando l’argomento fosse saltato fuori in Fia, a dire che non potevo esprimermi perché mio figlio era coinvolto.
Suo figlio è anche procuratore di vari piloti. Non sarebbe stato il primo conflitto d’interesse.
Mio figlio è anche il manager del povero Jules Bianchi, la cui famiglia probabilmente farà ricorso contro la Fia per il suo incidente. Dato che Nicholas lo rappresenta, in questa faccenda, non mi esprimerò. E poi se al Gran Prix c’è un incidente tra Felipe Massa e un altro io che c’entro? Non sono mica uno steward.
Ma è il capo indiscusso di questo mondo.
Il mio cognome al massimo lo aiuta a trovare un tavolo al ristorante. Di vantaggi Nicholas, detto tra noi, non ne ha mica tanti. Ma il mio ruolo non può diventare un handicap, né per lui né per me. Ogni tanto non gli dico nemmeno cose che racconterei a chiunque altro, tanto mi stressa la situazione.
Lei è conosciuto in Italia la conoscono soprattutto per aver guidato la scuderia Ferrari. Che ricordi ha dei tempi in cui non si riusciva a vincere?
Cominciai il primo luglio del 1993. Ferrari è un’icona, un orgoglio nazionale, ma all’epoca era un disastro. E la gente quando mi vide arrivare non poteva crederci. Erano abituati a un italiano che veniva cacciato dopo un annetto con una lauta buona uscita e senza aver combinato nulla. Io fui il primo straniero alla guida del cavallino, che sembrava piuttosto un monumento in rovina.
Cosa fece?
Il medico. Io osservo, analizzo, traccio la diagnosi e prescrivo la cura, sempre. All’epoca mancavano sia le strutture sia i mezzi. La parte tecnica era prodotta in Inghilterra, e la mano sinistra non comunicava con la destra. Ripartire non fu facile.
Perché?
Io sono molto orgoglioso. Quello a cui tengo di più io è essere maestro del mio destino, senza subire le decisioni degli altri. Per questo furono anni durissimi. Tornavo a casa e dicevo: domani mi licenziano. Sarebbe stata una scelta loro, non mia. Soffrivo moltissimo, qui nella pancia. La soddisfazione più grande della mia vita è aver resistito in quegli anni.
Poi arrivò Schumacher.
La gente si aspettava che, con l’ingaggio di Michael, tornassimo a vincere subito, ma non fu così. Però non c’erano più scuse: ora avevamo il miglior pilota del mondo. E Schumi, che è molto intelligente, rigoroso, e pragmatico, capì che eravamo sulla buona strada per rimettere in piedi Ferrari. Così, quando provarono a farmi fuori, nel giugno ’96, Michael legò il suo futuro al mio, dicendo che se mi avessero mandato a casa se ne sarebbe andato anche lui. Lavoravamo insieme da gennaio, appena cinque mesi. Mi salvò.
Chi erano i suoi nemici di allora?
La stampa prima di tutto, a voi giornalisti piace criticare da lontano, invece che venire a confrontarvi. E poi certi vertici del gruppo Fiat. Ma non l’avvocato Agnelli. Lui era molto solidale.
E Montezemolo come si comportava?
Luca è un campione del mondo della comunicazione, e devo dire che mi aiutò, nonostante subisse una certa pressione. Ovviamente non eravamo sempre d’accordo, ma c’era una tale tensione che alla fine facemmo squadra. Ebbe l’intelligenza di lasciarmi lavorare, capì che potevamo farcela. E poi nessuno voleva prendersi la responsabilità di far andare via Schumacher. Io ne approfittai, in un certo senso. Era il mio scudo. Michael aiutò Montezemolo a supportarmi, e mettemmo in piedi una macchina da guerra. Dopo tanti momenti difficili vissuti insieme, io e Luca ci vogliamo bene.
Vi legano anche tante vittorie.
Quattordici titoli, 6 piloti, 106 gran premi. In 16 anni abbiamo conquistato più della metà di tutti i successi della Ferrari in 60 anni. Cose uniche nell’automobilismo sportivo.
Parla della Ferrari con l’amore e l’orgoglio di un padre, come fa a non parteggiare per la rossa ora che è presidente della Fia?
Eh, è buona domanda. Ma le rispondo dopo.
Ma la smetta!
Iniziai come copilota, dal ’66 al 1981. Volevo farcela entro i 30-35 anni. Non so cos’avrei fatto se non avessi avuto successo, forse avrei venduto cravatte, ma non volevo invecchiare co-pilota.
Poi arrivò la direzione sportiva della Peugeot.
Vincemmo subito tanti rally, cross country, sport prototipo. Ecclestone parlò di me a Gianni Agnelli, Montezemolo e Romiti. Incontrai Luca nella sua casa bolognese nell’agosto del 1992, per non essere riconosciuto. Ma passare in Ferrari non fu una scelta facile, avevamo tutti molto da perdere.
Fu l’inizio dei suoi “anni durissimi”.
Spesso, la sera tardi, venivo preso dall’angoscia. Era un ambiente difficilissimo da gestire, le cose non andavano come volevo, e tutto procedeva a rilento. Vincere sembrava impossibile. Alain Prost, quando arrivai in Ferrari, mi disse: “Qui non ce la fai, te lo dico subito”. Per fortuna che mi parlò così, mi diede un grande stimolo. Ma tante volte, la sera, mi tormentavo: “Forse ha ragione lui, qua non ce la faccio”. E invece l’ho fatto.
Va spesso a trovare Schumacher?
Una volta a settimana: ci vado domattina. Io e Michael siamo uniti da anni di sofferenza. Nel ’97 Michael stava per diventare campione del mondo, ma Villeneuve cercò di sorpassarlo e lui lo buttò fuori apposta. Venne eliminato e fu uno scandalo planetario. Da eroe diventò il peggior uomo del mondo. Io gli stetti molto vicino, non capisco chi volta le spalle alla gente che cade. Nel ’98 eravamo in testa e perdemmo all’ultima gara. Nel ’99 ci fu quell’incidente a Silverstone: Schumacher si ruppe la gamba e saltò cinque Gp. Poi nel 2000, finalmente, Michael diventò campione del mondo. Mentre saliva sul podio, gli dissi: “Ora la nostra vita sarà diversa. Ora si vince”. E la gara dopo avevo la stessa ambizione, la stessa fame. È la nostra natura.
E quanto le è durata?
Non è mai andata via. Oggi non posso più vincere perché il mio ruolo non me lo consente, ma mi do altri obiettivi. Io vivo di sfide, voglio riuscire dove gli altri nemmeno pensano di poter provare.
Risponda alla domanda di prima: tifa ancora Ferrari?
Mmmh? Onestamente, no.
Non è credibile.
Quando arrivai in Ferrari, lasciai Peugeot dietro di me. Ora la rossa è dietro di me. Il passato va lasciato alle spalle, sennò ti impedisce di continuare a vincere.
Non ha mai nostalgia?
Ho i miei momenti. E preferirei avere la sua età invece che la mia, ma non lascio che questi sentimenti interferiscano con i miei piani.
Tra le altre sue cariche c’è quella di ambasciatore in Malesia. L’hanno accusata di essersi fatto pagare per ricoprire un ruolo che doveva essere onorario.
Sì sì, sono sempre i nemici che spargono queste brutte voci.
I suoi soliti nemici.
Non i soliti, sono altri. Non è che ho solamente un gruppo di nemici, sono dappertutto.
E la sua compagna è malesiana.
Ecco, infatti è grazie a Michelle se anche io sono conosciuto, là. Abbiamo buoni rapporti con la ministra del Turismo, che mi ha chiesto se potevo fare l’ambasciatore, per parlare bene della Malesia all’estero. La sua opposizione politica ha detto che mi avevano dato gran soldi per accettare, ma la verità è che non ho preso una lira.
Altro che una lira, si parla di un milione.
Mai successo. In questi casi la mia grande fortuna è di avere amici fantastici, in tutti i campi. Manager, avvocati, editori. Per sapere come reagire, se denunciare, se smentire, mi confronto con loro, e ne seguo i consigli. Gliel’ho detto, no, che mi circondo solo dei migliori?
Comunque o lei è un perseguitato o sa difendersi molto bene.
La seconda. Mio figlio, addirittura, mi dice che sono un cretino. “Hai visto lui quanto guadagna?”, e indica qualcuno con posizioni molto meno importanti della mia. Sarò naiv, ma quel che mi interessa è stare in pace quando mi guardo nello specchietto la mattina.
Specchietto?
Sì, anche se io guardo più avanti che indietro.
Com’è l’ubriacatura da potere?
Non glielo saprei dire, non l’ho mai provata. Il potere è come una pistola nella tasca. È esplosivo, pericoloso. Si deve saper gestire. Ma io sono un gran fortunato, ricchezza e fama non mi danno alla testa. Non provo invidia per nessuno. E poi il vero potere non si racconta, si ha. Un grande leader non lo deve dire. Tanto gli altri lo sanno. Io ho moltissimo rispetto per chi riesce a restare umile.
E lei pensa di esserlo?
Non sono un falso umile, ma un realista. E idem quelli intorno a me. Michael non sembrava umile solo perché è molto timido. Pensi che lui, che è forse il più grande campione di tutti i tempi, ogni anno mi chiedeva di fare un test di guida in privato, per vedere se era ancora capace. Se vuoi essere il numero uno, non ti puoi rilassare mai. I leader non possono stare tranquilli.