Il Sole 24 Ore, 10 giugno 2015
Alle urne, insieme ai sogni di grandeur del Sultano Erdogan, è svanito anche il boom del Bosforo? L’Europa si è accorta che la Turchia, Paese strategico della Nato, crocevia delle pipeline di gas e petrolio, coinvolto nella disgregazione di Siria e Iraq, è un asset ma anche un problema se entra nella turbolenza dell’instabilità politica ed economica
Alle urne, insieme ai sogni di grandeur del Sultano, è svanito anche il boom del Bosforo? L’Europa si è accorta che la Turchia, Paese strategico della Nato, crocevia delle pipeline di gas e petrolio, coinvolto nella disgregazione di Siria e Iraq, è un asset ma anche un problema se entra nella turbolenza dell’instabilità politica ed economica.
«La Turchia è la Cina vicina», si diceva qualche anno fa ammirando performance strabilianti con tassi di crescita del 10 per cento. «Le cifre a volte ingannano. Il boom di Pechino è fondato sulle esportazioni e il risparmio: i cinesi sono rimasti un popolo sobrio. Questa è un’economia basata sui consumi, le costruzioni, l’immobiliare, un po’ come la Grecia e la Spagna. Da almeno un paio di anni qui è scattata la trappola delle economie a reddito medio (10-12mila dollari pro capite) quando svaniscono i vantaggi comparativi, come il basso costo di lavoro, e i capitali stranieri si volatilizzano», così afferma una fonte finanziaria italiana di Istanbul che chiameremo Bancor, antico pseudonimo che usava sulla stampa il governatore della Banca d’Italia Guido Carli.
Mentre il presidente Erdogan ieri si consultava con il premier uscente Ahmet Davutoglu, alla ricerca di alleati per evitare elezioni anticipate, strizzando l’occhio anche ai nazionalisti dell’Mhp, la Turchia si prepara a liquidare la squadra economica che l’ha guidata per un decennio. Davutoglu, come prevedono le procedure, ha rassegnato le dimissioni, ma molto probabilmente sarà lui a esplorare le possibilità di una coalizione. Se ne andrà invece, dopo tre mandati, Ali Babacan, superministro dell’Economia che è stato per anni all’estero la faccia spendibile del sistema Akp. Tra i sostituti si fa il nome di Ibrahim Turhan, ex capo della Borsa di Istanbul e persino di Berat Albayrak, genero di Erdogan e proprietario del giornale Sabah, che si è appena distinto per avere licenziato una giornalista che ha votato l’Hdp filocurdo. Babacan e il capo della Banca Centrale Erdem Basci, considerato da Erdogan un “traditore”, erano quelli che placavano il nervosismo degli investitori quando il presidente affermava che per abbassare l’inflazione si dovessero tagliare i tassi.
Sono state queste uscite che hanno fatto perdere credibilità a un leader che rimane al centro della scena: «Il caos potrebbe favorirlo per riproporre come unica via di uscita all’instabiità il suo progetto di repubblica presidenziale. Mai darlo per finito», dice Can Cundar, direttore di Chumurriyet, che Erdogan vorrebbe all’ergastolo per avere pubblicato le prove dell’invio di camion di armi ai jihadisti siriani.
La coppia Babacan e Basci era sempre lì, pronta a tamponare le falle, come è accaduto lunedì quando la speculazione è partita all’attacco. «Nelle sale dei trader di Londra – spiega Bancor – si erano già preparati alla debàcle dell’Akp, in un certo senso l’auspicavano temendo che avrebbe fatto precipitare il Paese in un’autocrazia senza freni». C’è chi nota, con un certo cinismo, che questa crisi può giovare al presidente. «All’Akp può essere utile governare in una coalizione cui addossare la fine del boom», dice Ahmet Kekek, capo di Star, giornale filo-Erdogan.
Come e quando si è inceppata la macchina? L’anno scorso la crescita è stata sotto il 3% (quest’anno le previsioni sono più o meno uguali) insufficiente a garantire nuovi posti di lavoro a un milione di giovani che ogni anno si affacciano sul mercato dell’occupazione. «In realtà – dice Bancor – questo è un Paese che importa più di quanto esporta, ha un deficit cronico della bilancia delle partite correnti, finanziato con l’afflusso di capitali esteri a breve termine. Questi capitali si spostano – come è già avvenuto con il “tapering” della Fed durante le manifestazioni di Gezi Park nel 2013 – e non sono compensati da altri investitori come la Russia, ora in crisi, oppure dall’Arabia Saudita e dalle monarchie del Golfo, condizionati nelle loro decisioni da fattori geopolitici, basti pensare ai dissidi tra Erdogan e Riad sulla defenestrazione dei Fratelli Musulmani in Egitto».
La disgregazione mediorientale non aiuta: Iraq e Siria, in guerra con il Califfato, erano tra le destinazioni più importanti delle merci turche, che hanno l’Europa come primo mercato con il 45-50% del totale. La svalutazione della lira turca favorisce l’export in euro ma fino a un certo perché anche la moneta europea ha perso valore con il “quantitative easing” della Bce.
Per coprire il deficit, la Banca centrale ha rallentato i consumi che non erano più sostenibili. Prima si poteva acquistare un’auto con carta di credito pagando in 48 rate, ora sono state tagliate a nove. Costruzioni e immobiliare tirano ancora, basti pensare al terzo ponte sul Bosforo o alla nuova autostrada Gezbe-Izmir, appaltati vinti dall’Astaldi. Ma una coalizione di governo ha dei costi e se si farà dovrà spartire la torta con nuovi famelici convitati. Per le 1.200 imprese italiane che lavorano con la Turchia forse non cambierà molto, anzi la svalutazione della lira favorirà gli esportatori: rimane una solida meta dove delocalizzare.
Ma la Turchia affluente di Erdogan, che ha liberato da lacci a lacciuoli la classe imprenditoriale conservatrice dell’Anatolia, e stima in oltre il 30% l’economia “grigia”, fuori dalle statistiche, dovrà fare i conti anche con le tendenze populiste di leadership più vulnerabili alle pressioni dal basso. Tutti i partiti hanno promesso di aumentare il salario minimo: se si profilano elezioni chi avrà mai il coraggio di tirarsi indietro? Il successo di Erdogan è passato attraverso le performance economiche, i consumi, la redistribuzione della ricchezza e del reddito, e il suo partito difficilmente scorderà la lezione delle urne.