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 2015  giugno 08 Lunedì calendario

La Juventus e la nobiltà della sconfitta. Dal «conta solo vincere» al «abbiamo perso con dignità». La fierezza che si sostituisce alla delusione, grazie all’applauso dei tifosi e al tweet del Barça: «Il valore dei titoli lo dà anche la forza degli avversari»

Fieri di voi”. “Orgoglio”. “A testa alta”. “Grazie lo stesso”.
La metrica della sconfitta scandisce un nuovo linguaggio, recitando versi mai visti (i social sembrano fatti apposta per liofilizzare il molto in pochissimo, l’universo schiacciato dentro quattro parole), ed è come se la Juve fosse entrata in un’altra dimensione. Molto bello e nobile dal punto di vista sportivo, abbastanza curioso e certamente insolito per la storia e il codice genetico di questo club. Vincere non era l’unica cosa che contava? Lo avevano persino fatto stampare sulle maglie. E adesso, cosa scriviamo sui colletti?
Non è il solito, noioso dibattito sui gufi, sugli anti-juventini che sfottono e i battuti che abbozzano. Qui c’entrano filosofia e antropologia, oltre che l’arte dialettica e un pizzico di psicologia (in fondo, c’è un lutto da elaborare). Forse a Berlino è proprio nato un tipo inedito di juventino, una sorta di homo novus che impara a sbirciare oltre il confine del risultato per scorgere un senso più profondo (ho fallito, riproverò), e per capire che la morale dello sport non la scrivono solo i vincitori: mica facile, per chi da oltre un secolo vuole vincere e basta.
È probabile che nell’evoluzione di questo “juventino due punto zero” c’entrino le sei finali di Coppa dei Campioni/Champions League perdute (muta il nome, non il risultato), sei cadute in otto tentativi; e le due vittorie sono quelle dell’Heysel e di Roma 1996, alla resa dei conti l’unico successo vero, pure questo sofferto perché finì (bene, per una volta) ai rigori. Quanto basta per decidere che tra la Juve e il portaombrelli d’argento c’è qualcosa che non va. E allora ben venga un approccio differente, più maturo e più adulto, a suo modo una rivoluzione copernicana nel firmamento bianconero: può esserci bellezza anche nella sconfitta.
Mentre impazza l’hashtag #PROUDofJU, i gufi diranno che gli juventini se la cantano e se la suonano, e che la pillola bisogna in qualche modo indorarla, altrimenti col cavolo che va giù (basta un poco di zucchero, lo teorizzava anche Mary Poppins). Ma è una lettura riduttiva. Il senso dell’orgogliosa sconfitta lo ha riconosciuto per primo il Barcellona, con un immediato tweet da giù il cappello (“È stata una grande finale. Il valore dei titoli lo dà anche la portata degli avversari. Forza Juve!”) e con quell’emozionante e rarissimo “pasillo” in campo, vale a dire il corridoio umano dei vincitori che rendono onore agli sconfitti e li abbracciano sinceramente. E allora, forse, aveva ragione Gesualdo Bufalino, grande scrittore ormai quasi dimenticato, quando scriveva che i vincitori non sanno quello che si perdono.
Dunque, l’arco teso tra De Coubertin e Boniperti scocca la freccia con Allegri e Buffon, entrambi giustamente fieri di quanto fatto a Berlino, compreso il non fatto. Mica si gioca da soli, e quando gli altri sono più bravi bisogna ammetterlo. Poi, c’è modo e modo di cercare un significato, una morale dentro la favola che era stato bello raccontarsi, e a un certo punto la favola si poteva pure realizzare: se quel rigore, se quel tiro, se quel contropiede.
Infine, che vincere sia l’unica cosa che conta non è solo una fesseria, è soprattutto una distorsione pedagogica: contiene sin dall’antichità classica la verità profonda dell’agonista, questo sì, però è il peggior messaggio possibile per ogni ragazzo che s’accosti allo sport. Dopo chi che, fuor di ipocrisia, perdere rode da morire, figurarsi una finale del genere. E ripetersi “grazie lo stesso” fino allo sfinimento, per convincersi che poi non è tutto così tragico, equivale a dire all’amata rimaniamo amici. Bello, nobile. Terrificante.