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 2015  giugno 08 Lunedì calendario

Turchia, è la fine della dittatura di Erdogan. Per la prima volta dal 2002 il partito conservatore non ottiene la maggioranza assoluta. Akp è stato messo alla prova da un curdo, Selahattin Demirtas, al quale è bastato un 13% per ribaltare le sorti del Paese della Mezzaluna: «Con questo voto hanno vinto gli emarginati, i disoccupati, coloro che hanno dovuto soffrire per vivere e coloro che hanno sofferto il fascismo del colpo di stato»

La faccia pulita di un curdo in camicia bianca entra per la prima volta nel Parlamento della Turchia e abbatte l’arroganza del Sultano. Selahattin Demirtas, l’outsider dall’eloquio tranquillo che difende le minoranze, le donne e i gay, dopo aver rifiutato in campagna elettorale l’intesa con il leader Recep Tayyip Erdogan, ora lo sfida mettendo sul piatto il 13% dei voti e 80-82 deputati che irrompono a sorpresa nell’Assemblea di Ankara. Per il Paese della Mezzaluna è una rivoluzione. Il partito conservatore di ispirazione religiosa fondato dal presidente è sempre il primo, ma arretra di quasi 10 punti e perde per la prima volta da 13 anni la maggioranza assoluta. Dietro l’angolo, l’incognita sul possibile governo da formare (anche privo degli islamici) e lo spettro di nuove elezioni anticipate.
Ballano i curdi nelle città in festa del Sud est dell’Anatolia. Accendono fuochi nella notte e agitano le bandiere con i colori verde rosso e giallo fino a ieri proibite, perché ritenute vicine a quelle del Pkk fuorilegge. Ma dopo la trattativa fallita tra Erdogan e il leader del Partito dei lavoratori del Kurdistan, Abdullah Ocalan, da 15 anni detenuto nell’isola prigione sul Mare di Marmara, è ora il volto di un curdo senza legami con la guerriglia a sbaragliare le urne. Pure nelle grandi metropoli turche. A Istanbul, ad Ankara, a Smirne, Demirtas conquista 3 punti in più oltre la micidiale soglia di sbarramento del 10 per cento, imposta 40 anni fa dai militari golpisti. Mai un partito curdo era riuscito nell’impresa, e la domanda di democrazia allargata che esce dal voto turco impone nuovi obiettivi e un duello inatteso fra un presidente che guida alla deriva e un giovane rampante che reclama un posto a tavola per la propria gente.
«È una magnifica vittoria», dice Demirtas felice e compito nel suo quartier generale a Istanbul, mentre su un tabellone luminoso i risultati (e i deputati) del suo par- continuano a crescere. «Con questo voto hanno vinto coloro che stanno dalla parte della giustizia, della libertà, della pace e dell’indipendenza. Curdi, armeni, turchi, alawiti, sunniti, cristiani, hanno vinto tutti coloro che si sono sentiti esclusi. Hanno vinto gli emarginati, i disoccupati, coloro che hanno dovuto soffrire per vivere e coloro che hanno sofferto il fascismo del colpo di stato. È una vittoria per le donne che hanno sostenuto il nostro partito». Poi, continuando a mostrare equilibrio, aggiunge: «La discussione sulla presidenza esecutiva e sulla “dittatura” di Erdogan è finita con queste elezioni. Ma, così come abbiamo detto in campagna elettorale, non ci alleeremo in una coalizione con il Partito della Giustizia e dello sviluppo (Akp)».
Erdogan perde così la sua scommessa. Il trionfo di Demirtas gli toglie la maggioranza e forse addirittura il governo. Alle urne affluenza altissima, al 90 per cento. Il Partito al potere (Akp) resta il primo, ma si ferma al 40,9% (contro il 49,9 alle politiche 2011) e a 259 deputati su 550, quindi sotto la maggioranza di 276 necessaria per formare un governo monocolore. La prima compagine di opposizione, i socialdemocratici (Chp) di Kemal Kilicdaroglu, è al 25,2% (131 seggi), i nazionalisti (Mhp) di Devlet Bahceli al 16,6% (82 seggi), l’Hdp di Demirtas al 13% (80-82 deputati). Insieme le opposizioni sono a 291 seggi. In teoria potrebbero formare una coalizione di governo. Sarebbe un ulteriore terremoto per il Paese. Molti pensano che il Sultano farà di tutto per impedirlo. Ieri sera a urne chiuse il suo primo ministro Ahmet Davutoglu è stato molto esplicito: «Prenderemo qualsiasi misura per impedire pericoli alla stabitito lità della Turchia» Il presidente aveva voluto fare di queste politiche una sorta di referendum sulla sua persona. Nonostante la sua carica istituzionale, ben conoscendo lo scarso appeal politico del premier Davutoglu, è allora sceso in campo personalmente, percorrendo il paese in lungo e in largo nei comizi, brandendo il Corano. Demirtas ha conquistato gli elettori facendo come proprie buona parte delle idee libertarie espresse nel 2013 dai ragazzi di Gezi Park, la rivolta contro la deriva autoritaria e religiosa imposta da Erdogan, repressa con il pugno di ferro. Ha così ottenuto l’appoggio di buona parte dei circa 3 milioni di giovani che oggi votavano per la prima volta. In tutto il Paese le urne sono apparse come blindate, nel timore di brogli, con 100 mila sentinelle civili a presidiare i seggi. Centinaia gli episodi di violenza, tra ordigni esplosi nel Sud est e allarmi bomba all’aeroporto di Istanbul.
Vari scenari sono adesso possibili. Erdogan può cercare di promuovere un governo di minoranza dell’Akp fino a elezioni anticipate. Può anche tentare un’intesa con uno dei tre partiti di opposizione. I candidati più probabili sarebbero i nazionalisti. Ma lo scenario più interessante prevede che curdi, nazionalisti e socialdemocratici, nonostante l’antagonismo storico, potrebbero – pur di sbarazzarsi degli islamici al potere da 13 anni – provare un accordo fino a elezioni anticipate. Che spetta comunque al presidente decidere se e quando convocare.
Erdogan, in ogni caso, sarà l’arbitro del dopo elezioni. Un arbitro che ha giocato finora da protagonista. E ha però, ancora più di prima, gli occhi del mondo addosso.