La Stampa, 8 giugno 2015
Il caso Phil Klay, l’ex Marine oggi scrittore che racconta la sua cruda esperienza nel romanzo “Fine missione”. «Noi veterani dell’Iraq delusi, ma rifaremmo tutto». Elogiato da Obama, è diventato un fenomeno internazionale
La prima parola che gli viene in mente è «rabbia». Poi ci pensa su qualche secondo, osserva attraverso gli occhiali da sole scuri le unghie morsicate delle sue dita, e aggiunge: «Rabbia e tristezza. Perché abbiamo una responsabilità verso questa gente, che sta vivendo un nuovo incubo».
La domanda a cui Phil Klay risponde così era tanto ovvia, quanto inevitabile. Ha servito in Iraq, ha visto morire i suoi compagni per difendere Ramadi e Fallujah, e ora su quelle case ancora imbrattate dal loro sangue sventola la bandiera nera del Califfato. Cosa prova? «Rabbia e tristezza», dice l’ex capitano dei Marines, che racchiude in sé una delle storie più singolari di quella guerra. Nato nel 1983 a New York da buona famiglia, scuola privata dai gesuiti, università prestigiosa dell’Ivy League a Dartmouth, e poi l’arruolamento volontario per finire in Iraq durante la «surge» guidata dal generale Petraeus. Quindi il congedo, la scuola di Creative Writing all’Hunter College e il romanzo d’esordio Redeployment, ora tradotto in Italia col titolo Fine missione (Einaudi, pp. 247, € 19) che diventa un caso internazionale.
Quando era laggiù, e vedeva i ragazzini comandati da al Qaeda che piazzavano le bombe sotto ai vostri mezzi, prevedeva che sarebbe finita così?
«Per la verità no. Durante la surge riuscimmo a far diminuire la violenza, e quando andai via c’erano motivi per sperare che le cose sarebbero andate meglio».
Di chi è la colpa?
«Non ho mai votato per Bush, non ho mai sposato la dottrina dei neocon, l’invasione del 2003 fu condotta con un’arroganza incredibile, ed è stata seguita da una incapacità grottesca di adattare la teoria alla realtà, una irresponsabilità che ancora mi fa rabbia. Però sarebbe troppo facile scaricare tutte le colpe su un uomo solo. Molti hanno commesso una serie di errori enormi».
Un elemento fondamentale del successo dellasurgefu l’Anbar Awakening, ossia il coinvolgimento delle tribù sunnite contro al Qaeda in Iraq, quelle stesse che ora non combattono l’Isis.
«Lo Stato Islamico è nato da al Qaeda in Iraq, che noi avevamo sconfitto. Per consolidare quel successo serviva una soluzione politica, coinvolgendo i sunniti nel governo centrale. Il premier sciita Maliki però non l’ha mai accettata, e noi abbiamo sbagliato a lasciarlo fare».
Ora come se ne viene fuori?
«Prima di tutto vorrei che il Congresso passasse una vera autorizzazione all’uso della forza, per avere un dibattito sulla strategia che intendiamo seguire. Un po’ di bombardamenti qua e là, anche se giustificati come quando abbiamo salvato gli yazidi del monte Sinjar dal genocidio, non fanno una strategia».
Se l’Isis marciasse su Baghdad, bisognerebbe intervenire?
«Non credo che ci riuscirebbe, perché la popolazione sciita lo respingerebbe. Ma comunque non penso che torneremo più con le truppe sul terreno».
E allora?
«Bisognerebbe includere le tribù sunnite, come all’epoca dell’Anbar Awakening, aiutandole militarmente. Poi dovremmo accettare i limiti di ciò che possiamo e non possiamo indirizzare, e fare un lavoro diplomatico intenso per mobilitare i paesi della regione, perché hanno molta più influenza di noi e solo loro possono isolare e fermare l’Isis».
Perché un privilegiato come lei si era cacciato in questo guaio?
«Eravamo in guerra, volevo servire il mio Paese. E c’erano altre cose della vita militare che mi attiravano, come l’etica, il gruppo unito da un proposito condiviso, il senso del sacrificio».
Poi è arrivato in Iraq, e ha visto i colleghi sparare ai cani.
«Lo facevano perché i cani mangiavano i cadaveri degli uomini, non per divertimento. La guerra è un’esperienza molto particolare».
Ha visto commettere crimini?
«No, il nostro esercito oggi è molto professionale».
Qual è l’orrore che non scorderà mai?
«Ero arrivato da un mese, ci fu un attacco suicida alla porta della nostra base di Habbaniyah. Portarono dentro così tanti feriti, bambini dilaniati, che i chirurghi operavano in terra, e i Marines facevano la fila per donare il sangue in piedi».
Ho conosciuto molti reduci, ma nessuno dice mai se ha ucciso.
«È la domanda che odiano di più, perché in genere chi la pone non ha mai il senso della sua gravità».
Obama ha elogiato il suo libro, e tutti i critici lo hanno esaltato come il crudo racconto di cosa la guerra fa alle persone. Quindi è stato etichettato come un anti guerra.
«Non mi riconosco in questo giudizio. Non volevo fare un racconto didattico, ma solo mostrare la realtà: tanto i pacifisti, quanto chi crede che la guerra sia solo onore e nobiltà, ci troveranno qualcosa. Volevo che si parlasse di guerra, perché fa parte delle nostre scelte politiche, ma la combatte solo l’1% degli americani. Questo non ci aiuta a ragionare bene sulle strategie».
L’intervento in Iraq è stato ripudiato dalla maggioranza degli americani: voi veterani temete di essere abbandonati come quelli del Vietnam?
«Credo che abbiamo imparato a distinguere la politica non condivisa, dall’uomo che serve il Paese. Penso che la nostra generazione potrà dare il suo pieno contributo».
Lei è cattolico, e il Vaticano disse che l’invasione in Iraq non era una guerra giusta: come ha conciliato fede e battaglia?
«Ho distinto le cose. L’invasione del 2003 non era teologicamente giusta, ma i piloti che oggi sganciano le bombe per evitare il genocidio degli yazidi assediati combattono la stessa guerra? Io partii nel 2007: allora lo scopo era riparare i danni fatti nel 2003, stabilizzando il Paese, e la mia coscienza è in pace».
Lo rifarebbe?
«Sì. Il 90% dei veterani dell’Iraq dice che tornerebbe indietro. Magari senza l’ingenuità dei vent’anni, ma rifarei tutto».