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 2015  giugno 08 Lunedì calendario

La nazionale palestinese e il figlio di Abu Mazen. Quando le battaglie politiche si giocano su un campo di calcio

I nomi incisi sul muro di pietra del centro sportivo sono quelli dei ragazzi uccisi negli scontri con gli israeliani durante la seconda Intifada. Queste stradine intasate di auto e sporcizia sono state tra le più difficili da controllare per l’esercito agli inizi del Duemila. Da qui è venuta la prima kamikaze donna: l’infermiera Wafa Idris si è fatta esplodere nel centro di Gerusalemme e ha ucciso un passante.
A lei qualche anno fa è stato dedicato un torneo di calcio. Perché nel campo rifugiati Al Amari, dentro Ramallah, tutto è legato alla squadra fondata nel 1953: anche i palestinesi che non abitano tra questi cubi grigi di cemento la considerano come la loro nazionale.
Il valore simbolico del club è così importante che Tarek Abbas, il figlio del raìs, avrebbe voluto diventarne presidente. Ci è riuscito per dodici mesi, chiamato in soccorso dai dirigenti locali: i trionfi nel campionato palestinese per due anni di fila, la partecipazione alla coppa d’Asia, non avevano riempito il buco economico. Tarek è un uomo d’affari che ha portato i soldi e i contatti di famiglia.
Non sono bastati. Sotto la sua guida la squadra è arrivata ottava, ad aprile la stagione si è chiusa male. Così la gente di Al Amari si è organizzata e ha presentato una sua lista per riprendere il controllo dell’unico orgoglio e forse dell’unica speranza. Hanno votato 1.000 persone: 750 hanno scelto «I figli del campo» contro «Riforma e cambiamento» di Abbas, le sue promesse non hanno ottenuto alcun rappresentante. Quel giorno gli uomini sono scesi in strada cantando lo slogan «Tarek dì a tuo padre che il popolo di Al Amari non ti vuole». E se le urla non fossero arrivate al palazzo della Muqata, a qualche chilometro di distanza, hanno tirato giù il poster del presidente Mahmoud Abbas (nome di battaglia Abu Mazen) e l’hanno sostituito con quello di Yasser Arafat.
«La politica non c’entra, la decisione è stata solo sportiva, il meglio per la nostra squadra», prova ad assicurare il neopresidente Jihad Tumaliya. Eppure questo «figlio del campo» a 49 anni rappresenta la nuova generazione dentro al Fatah, il partito dell’ottantenne Abu Mazen di cui è parlamentare. I trofei nel suo ufficio raccontano le vittorie degli ultimi anni e le sconfitte militari di sempre: le famiglie portano qui le targhe per ricordare i morti della seconda intifada. Questo centro sportivo è l’unico sfogo per i ragazzi del campo, dove la disoccupazione tra gli 8 mila abitanti raggiunge l’80 per cento.
La gente si sente abbandonata dall’Autorità Palestinese che dà lavoro solo a 70 persone: qui hanno interpretato la mossa di Tarek Abbas – nessuno l’aveva mai visto allo stadio – come un tentativo del padre di ingraziarsi Al Amari. «C’è malcontento verso l’Autorità, ma nessuno dimentica la vera questione: viviamo sotto l’occupazione degli israeliani. Il Fatah resta il partito più popolare nel campo», commenta Jihad. Gli striscioni attorno a rettangolo d’erba sintetica per gli allenamenti sono quelli del movimento fondato da Arafat: esaltano i giocatori e invocano il «diritto al ritorno» per i rifugiati palestinesi.
Tarek è il più giovane dei tre figli di Abu Mazen (uno è morto d’infarto nel 2002). Come il fratello Yasser è un imprenditore che ha accumulato milioni di euro in affari tra la Cisgiordania e i Paesi arabi del Golfo. Sul campo di Al Amari si è giocata anche la sfida per la successione al raìs. «Abu Mazen è ormai al potere da un decennio – scrivono Ghait al-Omari e Neri Zilber sulla rivista Foreign Affairs – e in questo periodo si è assicurato che nessun successore potesse emergere. Forse ha funzionato come tattica politica personale, ma come strategia nazionale rischia di essere distruttiva per i palestinesi».
Quando cinque mesi fa è circolata la voce che fosse stato ricoverato d’urgenza in ospedale, Abu Mazen ha lasciato il palazzo per farsi vedere tra la gente di Ramallah. Non gli succede spesso, di solito evita la folla: la vera emergenza era dimostrare subito che c’è ancora un uomo al comando.