Corriere della Sera, 5 giugno 2015
Il caso pensioni, ora il blocco dei contratti statali: ma chi sono gli avvocati che difendono lo Stato? Qualche riflessione sull’Avvocatura e sui suoi componenti
L’Avvocatura dello Stato ha calcolato che sbloccare i contratti dei dipendenti pubblici, fermi per legge dal 2010, costerebbe almeno 35 miliardi. I sindacati si sono indignati, lasciando intendere che questa stima agghiacciante servirebbe a impressionare i giudici della Corte costituzionale, chiamati fra due settimane a esprimersi sul ricorso del Confsal. Per la Consulta è una seconda decisione cruciale per i conti dello Stato, dopo quella sulle pensioni.
E qui non può che saltare agli occhi una differenza fondamentale fra due vicende apparentemente simili, considerato che si tratta in entrambi i casi di stabilire la costituzionalità o meno di un blocco dell’adeguamento all’inflazione per assegni erogati dalle casse pubbliche. La differenza consiste nel fatto che stavolta l’Avvocatura ha fatto i conti, mentre nel caso delle pensioni la stima (5 miliardi a regime) non era stata forse presentata con la medesima enfasi, tanto che era sfuggita ai più.
Forse perché nel frattempo è cambiato l’Avvocato generale? Michele Di Pace ha lasciato il posto a Massimo Massella Ducci Teri, un burocrate di lungo corso che a giudicare dal suo sterminato curriculum ha trascorso un sacco di tempo a consigliare ministri (dai socialisti Lelio Lagorio e Carmelo Conte a Tiziano Treu, fino a quel Luigi Mazzella proveniente dalla medesima Avvocatura e a Giuliano Urbani) ed è stato anche presidente dell’Aran, l’organismo che ha proprio il compito di stipulare i contratti dei dipendenti pubblici. Dunque ha anche le competenze per fare quei calcoli che invece nel caso delle pensioni non sarebbero stati fatti.
Naturalmente si possono fare soltanto supposizioni sulle ragioni che hanno originato questa curiosa differenza di approccio. Ma se proprio dobbiamo esprimere un’opinione, è certamente meglio che i giudici costituzionali siano messi nelle condizioni di conoscere le conseguenze delle loro decisioni piuttosto che il contrario.
Detto questo, si impone qualche riflessione anche sull’Avvocatura. Dove certe prese di posizione non sono sempre ineccepibili. I suoi componenti sono dipendenti dello Stato a tutti gli effetti, equiparati ai magistrati. E alcuni di loro ci tengono ad esserlo al punto da aver innescato una gragnuola di ricorsi alla magistratura amministrativa contro la norma che li manda in pensione a settant’anni senza la proroga concessa ai giudici. Cause nelle quali lo Stato ha opposto av- vocati dello Stato ricorrenti ad avvocati dello Stato difensori.
Pur essendo dipendenti pubblici, tuttavia, sono al tempo stesso anche considerati alla stregua di liberi professionisti: fino a qualche tempo fa, oltre allo stipendio, godevano della piena riscossione delle parcelle pure per le cause con spese compensate.
Essendo poi equiparati ai magistrati e agli alti burocrati pubblici, ecco gli incarichi esterni. Alcuni di loro, come dimostra il caso dell’attuale avvocato generale, sono ingaggiati negli uffici legislativi ministeriali, nei gabinetti dei ministri o utilizzati come consiglieri delle cariche politiche. Ed è comprensibile, trattandosi di tecnici in qualche caso di livello elevato.
Ma capita pure che si ritrovino fra le mani alcuni incarichi particolari che li espongono a conflitti d’interessi semplicemente formidabili. Prendiamo la storia mai chiarita degli arbitrati, ovvero quella forma di giustizia privatistica esercitata però da pubblici amministratori per dirimere le controversie fra Stato e privati. Vi immaginate un collegio arbitrale con un avvocato dello Stato che deve giudicare una causa fra una impresa privata e lo stesso Stato difeso da un avvocato dello Stato, e prende una decisione contraria allo Stato? Non è fantascienza. È successo davvero, evidentemente grazie a una clamorosa confusione di regole. Mentre è fin troppo chiaro che non dovrebbe succedere affatto.