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 2015  giugno 04 Giovedì calendario

Tutti i guai di Angelino Alfano, mister 3%. Da delfino senza quid a leader senza quorum. Il suo partito, Ncd, boccheggia: ha più poltrone al governo che seggi regionali

Urne vuote, poltrone piene. L’alfanismo è un curioso fenomeno politico. La sua naturale vocazione al nanismo elettorale è bilanciata da un’occupazione militare dei posti di governo. E così il risultato delle Regionali di fine maggio ha disegnato un’inedita geografia di Ncd, che è il partitino di Angelino Alfano, ministro dell’Interno.
A fronte di appena tre, diconsi tre, consiglieri conquistati in sette regioni, il Nuovo Centrodestra ostenta dieci seggiole tra esecutivo e sottogoverno: due ministri, due viceministri, quattro sottosegretari.
In più, c’è in ballo una terza postazione dopo le dimissioni di Maurizio Lupi dalle Infrastrutture per la nota vicenda del Rolex al figlio da parte del sistema Incalza.
Il che vuol dire che un consigliere regionale di Ncd vale quanto tre poltrone e mezza di Roma. È il sovvertimento di ogni legge della gravità di Palazzo. È la prima volta che in Italia si studia un fenomeno del genere.
Una stima sovrumana di sé e la nevrosi da microdimensioni
Tutto nasce dalla sovrumana autostima di Angelino Alfano, presunto leader di Ncd. In queste ore il ministro dell’Interno gira le tv per comiziare nei talk-show e scimmiotta Matteo Renzi pure nei tweet. Quando l’altro giorno, il professore Roberto D’Alimonte ha quotato Ncd al 4,7 per cento dopo le Regionali, Alfano ha se l’è presa con “i portasfiga”, ossia l’astro nascente del populismo antieuro Matteo Salvini. “Angelino” è così. È arciconvinto che il suo partito non sfonda perché non riesce a rivendersi i meriti di governo e per questo ogni volta lui tenta di invertire il trend. Ma gli va sempre male. Alle Europee come alle Regionali. In realtà il dato di D’Alimonte è drogato dal voto veneto raccolto da Flavio Tosi, di cui Ncd era alleato. Il risultato reale degli alfaniani è attorno al 3,8 per cento, più basso persino di Fratelli d’Italia, altro partitino lepenista oscurato dalla stella salviniana. Dentro Ncd la nevrosi determinata da queste microdimensioni è contagiosa. Domenica sera, a Porta a Porta, un furibondo Lupi ha cazziato il sondaggista Piepoli perché non indicava Ncd tra i partiti monitorati.
La catastrofe elettorale e il vecchio Bengodi
Alla fine, per gli alfaniani, è stata una catastrofe elettorale. Avevano 27 consiglieri regionali uscenti e se ne ritrovano appena tre, come ha malignamente conteggiato ieri il Giornale di Sallusti. In altri casi a essere eletti sono stati i cugini dell’Udc, che insieme a Ncd formano Area Popolare. Popolare nel senso dc, non di raccolta di voti. Da delfino senza quid a leader senza quorum: è questa la parabola di Alfano in quattro lunghi anni. Fu Silvio Berlusconi che gli appiccicò mortalmente la nomea di “senza quid”. Per Alfano, democristiano di provincia, il berlusconismo è stato un insperato Bengodi. La promozione a Guardasigilli (ma il vero ministro ombra pare fosse l’onnipresente Ghedini), la casa dei Ligresti ai Parioli di Roma, i privilegi e i benefit della Casta. Tutto questo forma l’alfanismo che ha la poltrona incorporata, che resiste a tutte le gaffe o figuracce tremende da ministro dell’Interno, dal caso Shalabayeva all’arresto del marocchino accusato per la strage del Bardo a Tunisi. Tranne la parentesi Monti, “Angelino” è sempre stato al governo. E adesso che la sopravvivenza sua e di Ncd è messa a rischio dalla mancata trasformazione in partito di massa, ecco che fioccano faide e lotte cruente per i propri destini personali. Ormai Ncd, che si regge sui notabili del sud di Calabria e Sicilia, è una polveriera peggiore di Forza Italia. Ma se tra gli azzurri c’è quel che resta del carisma dell’ex Cavaliere, che può valere comunque il dieci per cento, tra i centristi di governo prevale la tragica consapevolezza che non si va da alcuna parte.
Un caos di visioni e tutti contro tutti
È il dramma, per esempio, che vive Renato Schifani, padre nobile di Ncd. A volte è tentato di schierarsi con i tanti oppositori di “Angelino”, ma alla fine prevale la mozione degli affetti per il giovane amico. Al momento il futuro è un caos di ipotesi. Gaetano Quagliariello, che è il coordinatore, ha chiesto di rimettere nell’Italicum il premio di coalizione al posto di quello di lista e molti colleghi di partito gli sono saltati addosso, istigati da Alfano. Poi però lo stesso ministro dell’Interno si è dichiarato a favore del premio di coalizione, pur precisando che non si impiccherà a questo. Continuando: c’è chi, come Nunzia De Girolamo, vuole il modello Liguria di Toti, da Alfano a Berlusconi passando per Salvini e la Meloni, e chi invece lavora per un rassemblement popolare della destra (senza Salvini ma con Forza Italia) da legare magari a un’uscita dal governo. Ma è difficile, se non impossibile, vedere Alfano alzarsi da una poltrona e rinunciarci prima del tempo previsto, il 2018. L’immagine corrisponde al periodo ipotetico dell’irrealtà. Tanto più che con lui ci sono ora tutti gli aspiranti sostituti di Lupi, Dorina Bianchi in testa.
Il lungo viaggio verso il Pdn
La verità è che Alfano, racconta chi lo conosce bene, non vuole scendere dal carro del renzismo e allo stesso tempo vuole arrivare al 2018 con le mani libere, non escludendo di confluire nel Partito della Nazione con altri pezzi moderati (gli ex di Scelta civica, finanche i verdiniani). Di ritornare da Berlusconi non se ne parla. I due avevano fatto pace a Milano ma poi il Condannato ha rotto con lui sull’elezione di Mattarella, quando Alfano non si è allineato al no: “È stato il solito traditore”. Un altro aspetto, questo, dell’alfanismo, fenomeno curioso della politica. Minimo sforzo massimo risultato.