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 2015  giugno 04 Giovedì calendario

«La redazione come una prigione a cielo aperto». È il titolo di una cronistoria sull’annus horribilis della stampa in Turchia. Cronisti che salgono sui cellulari della polizia con le manette ai polsi. Direttori di quotidiani con gli agenti davanti alla porta. Opinionisti minacciati di essere spediti all’ergastolo. I più fortunati sono licenziati, dopo aver solo digitato un tweet contro il Presidente. Ecco com’è oggi il Paese di Recep Tayyip Erdogan

«La redazione come una prigione a cielo aperto». È il titolo di una cronistoria sull’annus horribilis della stampa turca. Un testo puntuale su nomi e circostanze, appena pubblicato dal columnist (licenziato dal suo giornale) Yavuz Baydar. Questo sembra essere diventata, oggi, la Mezzaluna di Recep Tayyip Erdogan, mentre sotto una Istanbul dal cielo scuro i manifesti elettorali sventolano confondendosi con i colori della bandiera nazionale.
Cronisti che salgono sui cellulari della polizia con le manette ai polsi. Direttori di quotidiani con gli agenti davanti alla porta. Opinionisti minacciati di essere spediti all’ergastolo. I più fortunati sono licenziati, dopo aver solo digitato un tweet contro il Presidente. Gli altri o abbassano il capo oppure restano parcheggiati, nel terrore di scrivere una parola sbagliata sul loro articolo, mettere una foto giudicata non conveniente, pubblicare un’intervista sgradita e perciò passibile di condanna penale.
Orhan Pamuk parla di un clima di «paura». Prima non era così, ma ora lo è. Il Premio Nobel per la Letteratura conosce bene la dimensione. Nel 2005 il suo nome venne trovato in un covo dei terroristi, in testa all’elenco degli obiettivi da eliminare. Fuggì in America. Adesso però è diverso ancora: non ci sono più i militari al potere, spazzati dall’onda giustizialista dell’Islam all’epoca considerato moderato di Erdogan. Eppure, con il tempo – 12 anni al comando sono tanti per tutti – anche il leader turco è cambiato. Si è indurito. È divenuto insofferente alle critiche, pure dei più prestigiosi media stranieri. Come ieri, quando si è scagliato contro Bbc, Cnn e New York Times, figuriamoci quelli locali.
L’ultima degli epurati è un nome celebre qui, come molti dei suoi colleghi cacciati: l’editorialista di Milliyet, Asli Aydintasbas, la quale ha dovuto troncare il proprio rapporto di lavoro per un pezzo non piaciuto al suo editore, lo stesso imprenditore scoperto in un’intercettazione piangere al telefono con Erdogan dopo che il leader gli aveva chiesto ragione di uno scoop. Prima di lei, la scorsa settimana, era stata la volta dell’inviato del Boston Globe, Stephen Kinzer, già corrispondente a Istanbul per il New York Times e autore di libri pieni di attenzione per il Paese. Invitato a Gaziantep, nel sud est dell’Anatolia, per ricevere la cittadinanza onoraria, appena sceso dal volo si è visto revocare il premio via fax, con l’accusa di essere «un nemico del nostro governo e del nostro Paese». «Il motivo? – risponde Kinzer – Aver scritto di recente un editoriale con un paragrafo su Erdogan. Questo: “Un tempo visto come un abile modernizzatore, ora siede in palazzo di 1000 stanze, denunciando l’Unione Europea, reclamando l’arresto di giornalisti, e scagliandosi contro magliette corte e controllo delle nascite”».
La Spoon River dei cronisti di Istanbul, capitale mediatica del Paese, è lunga. Solo un libro può contenere «le vittime», come le chiama Baydar con un linguaggio da trincea. L’altra settimana un’accusa penale è stata stilata contro il direttore di Hurriyet, il giornale più diffuso del Paese, Sedat Ergin. La causa risiedeva nel titolo di prima pagina sulla richiesta di condanna a morte per l’ex presidente egiziano Mohammed Morsi, ai cui Fratel- li musulmani Erdogan è vicino: «Il mondo è sotto shock: pena di morte al presidente che ha vinto con il 52 per cento». Ora, 52% è la stessa percentuale ottenuta lo scorso anno dal leader turco alle presidenziali che lo hanno visto vincere. Al nuovo capo dello Stato, però, quel titolo è suonato come un lugubre rintocco, da parte di un giornale appartenente a un gruppo editoriale avverso al suo governo conservatore di ispirazione islamica. Hurriyet si è difeso scrivendo una lettera aperta: «Stimato Presidente, che cosa vuole da noi? Ci manderà in esilio? Lei ha detto “vivete le vostre vite nella paura”. Perché dovremmo farlo? Perché il presidente di un Paese democratico dice ai suoi cittadini che devono vivere nella paura?».
Cumhuriyet, il quotidiano liberal oggi attaccato, vicino al partito di opposizione socialdemocratico, è sotto schiaffo da mesi. Lo scorso gennaio fu l’unico in Turchia a pubblicare le vignette di Charlie Hebdo su Maometto, dopo il massacro dei disegnatori di Parigi. Due giornalisti, Ceyda Karan e Hikmet Cetinkaya, vennero accusati dalla procura di incitamento all’odio e di insultare i valori della religione.
Un capitolo tutto a sé merita il caso dei social network. Nell’autocensura che si imposero i media tradizionali durante la rivolta di Gezi Park, estate 2013, furono loro a dare conto immediato delle cariche della polizia contro i manifestanti. Lì scattò la rabbia di Erdogan, che impose il blocco. Poi, nel marzo seguente, a campagna elettorale in corso per le amministrative, YouTube e Twitter furono costretti al silenzio dopo la pubblicazione degli audio con casi di corruzione che coinvolgevano il governo.
Eclatante è ancora la vicenda di Mehmet Baransu, cronista investigativo del quotidiano Taraf, accusato di rivelazione di segreti militari di Stato e arrestato per cinque volte. Adesso langue da tre mesi nella cella numero T-12 del carcere numero 1 di Metris, alla periferia di Istanbul. Rischia 52 anni. Di recente è stato diffuso un suo testo, orgoglioso e commovente, dal titolo: «Sono solo nella cella della mia prigione».
La Collina dove dormono i giornalisti turchi, «le vittime», «i feriti», è in attesa di svegliarsi presto in una sperabile libertà di espressione. Anche se la vigilia del voto, domenica prossima, non sembra dare i migliori auspici. Yavuz Baydar, con il suo testo sulla “redazione come una prigione a cielo aperto”, forse il reporter e blogger più attivo per analisi e dati di informazione forniti in tempo reale, ha scritto un articolo. Il titolo: «Erdogan ha trasformato la Turchia in una zona di combattimento».