il Fatto Quotidiano, 3 giugno 2015
Tutti i numeri dello shopping degli emiri in Italia. Parliamo del Qatar, un paese del Golfo Persico grande come l’Abruzzo, ma con il portafoglio gonfio di liquidità grazie al gas naturale, di cui, con 130 miliardi di metri cubi all’anno, è il terzo produttore al mondo dopo Russia e Iran
Lo scorso due maggio all’Expo il ministro Pier Carlo Padoan incontra il suo omologo, lo sceicco Ahmed Bin Jassim al Thani, in una riunione riservata poco prima dell’inaugurazione del padiglione del Qatar: un grande Suq (il mercato tradizionale mediorientale), sormontato da una struttura che ricorda il tradizionale cesto per alimenti, lo Jefeer, attorniato da torri dallo stile arabeggiante su una superficie totale di circa 2.450 metri quadrati. “Non è un semplice fatto formale – dice il ministro per spiegare la sua presenza – ma la testimonianza di un rapporto che c’è e che si sta rafforzando tra Italia e Qatar”.
Il 28 maggio, un altro sigillo e un altro taglio del nastro, stavolta in Sardegna e alla presenza di Matteo Renzi: l’inaugurazione del cantiere dell’ospedale Mater Olbia che entro la fine dell’anno funzionerà in regime di convenzione con una spesa annua della Regione pari a 55 milioni di euro. Ricerca internazionale e posti letto in deroga, 290 a regime, concessi dallo stesso governo pur di avvallare l’operazione.
Foto, sorrisi, strette di mano. Gli sceicchi ottengono la benedizione al volume di scambi totali tra i due paesi che ha raggiunto i 3 miliardi di euro. Ma anche al “piano Marshall” della Sardegna dove la Qatar Foundation (guidata dall’ex emiro, Hamad Al Thani, e dalla moglie, Mozah, padre e madre dell’attuale primo ministro) investirà 1,2 miliardi di euro nei prossimi dodici anni e avrà come alleato il Bambin Gesù di Roma nel rilancio dell’incompiuta della sanità lasciata in eredità alla Gallura dal crac del San Raffaele di Milano e della Fondazione Monte Tabor. Il Qatar mette i soldi, il Vaticano le competenze e parte del personale medico. Amen. Prossime prede sarde: l’Olbia Calcio e soprattutto la compagnia aerea Meridiana. Perché la Qatar Airways vuole rispondere con la forza degli investimenti alla guerra internazionale dei cieli che vede contrapposte le compagnie del Golfo ai grandi vettori Usa ed europei, passando per l’Italia. Nei giorni scorsi l’amministratore delegato della compagnia del Qatar, Akbar Al Baker, ha rivelato di avere trattative in corso per l’acquisizione del vettore dell’Aga Kahn rimasto a corto di quattrini. Nel frattempo Al Baker ha pianificato il potenziamento delle rotte tra Roma e Doha e tra Milano e la capitale del Qatar, con un aumento del 30% della capacità, grazie alla recente introduzione dell’Airbus A 330 e del Boing 787 Dreamliner. Mentre la tratta tra Venezia e Doha avrà un aumento di capacità del 70%, a partire dal 16 gennaio 2016.
Il Qatar è un paese del Golfo Persico grande come l’Abruzzo, ma ha il portafoglio gonfio di liquidità (vanta il secondo Pil pro-capite a livello mondiale, pari a quasi 105 mila dollari) grazie al gas naturale, di cui, con 130 miliardi di metri cubi all’anno, è il terzo produttore al mondo dopo Russia e Iran. Il controllo dei giacimenti è statale: è in mano alla Qatar Petroleum, che opera attraverso due società, Qatar Gas e Ras Gas; quest’ultima, con le sue navi metaniere, rifornisce il rigassificatore di Rovigo, la prima operazione del paese arabo in Italia. Ma il vero centro del potere del Qatar, guidato dal giugno del 2013 dall’emiro Tamim Al Thani, 35 anni, è il fondo Qia che può contare su una dotazione di 250 miliardi di dollari. Parliamo del nono fondo sovrano al mondo per capacità di spesa.
Lo shopping degli arabi nell’isola e in Italia, in realtà, è iniziato da tempo. Nel 2012 si sono aggiudicati il complesso alberghiero della Costa Smeralda (4 alberghi, il porto, negozi, ville e terreni non edificati) per 354 milioni di euro, più 232 milioni rimborsati alla banca Unicredit per conto del venditore, il fondo americano Colony Capital. Nel carrello sono già finiti la maison Valentino e poi gli immobili del nuovo quartiere di Porta Nuova a Milano. E poi gli alberghi: dal Gallia di Milano all’Intercontinental de la Ville di Roma passando per St Regis sempre nella Capitale e per il Grand Hotel Baglioni di Firenze. Ci sono anche i privati che si muovono: qualche settimana fa la Nozul hotel & resorts ha comprato il Gritti Palace di Venezia.
Una volta l’Economist ha definito il regno di Doha come “il pigmeo col pugno di un gigante”. Più che il pugno, ad aprire le porte sono i petroldollari. Lo sa bene la Fifa di Sepp Blatter, dimessosi ieri dopo la recente riconferma alla presidenza della federazione più importante del calcio mondiale, scossa dallo scandalo che ha travolto i vertici, con capi d’accusa che vanno dalla corruzione alla frode. Nel mirino sono finiti anche i mondiali del 2022, assegnati cinque anni fa al minuscolo Stato del Golfo. Paese che non ha cultura calcistica, se non la ricca sponsorizzazione da 96 milioni di euro al Barcellona. La competizione, inoltre, dovrà essere spostata in inverno dall’estate, periodo in cui si è sempre giocata, per evitare le temperature troppo elevate. Premura che non è stata riservata a chi sta costruendo i nuovi stadi nel deserto: lavoratori immigrati trattati come schiavi. In Qatar il sistema della Kafala (il loro regime contrattuale) intrappola oggi oltre un milione di lavoratori stranieri, vincolandoli al proprio datore di lavoro e privandoli di ogni diritto. Una volta assunti, i lavoratori immigrati vengono privati di ogni diritto e del passaporto, che finisce nelle mani del datore di lavoro, che lo può tenere a tempo indeterminato. Senza il suo permesso, i lavoratori non possono licenziarsi, lasciare il paese o sporgere denuncia per eventuali abusi. Pena l’arresto o la deportazione.
Nel 2013, l’International Trade Union Confederation aveva lanciato l’allarme: moriranno 4 mila migranti per realizzare questi mondiali. Il rischio è quindi che per ciascuna delle 64 partite che si giocheranno nel 2022, saranno morti 62 operai. La stima non è esagerata: nel 2014 sono decedute 441 persone nei cantieri, dove i turni di lavoro (le misure di sicurezza non vengono rispettate) sono di almeno 12 ore al giorno, con 50 gradi all’ombra. Altro che Sardegna.