Il Sole 24 Ore, 3 giugno 2015
Gli emiri, il petrolio e gli affari con la Cina. L’Asia sta diventando il principale mercato per i produttori di greggio mediorientali. Dagli Emirati a Pechino un aumento del 116% nei primi mesi del 2015
L’energia è stata fra i fattori principali di crescita dell’economia americana e dei cambiamenti in atto nei modelli di scambio; inoltre ha giocato un ruolo chiave nei conflitti globali dalla Russia all’Ucraina al Mare cinese meridionale. Le innovazioni tecnologiche e gli alti prezzi del greggio hanno liberato in Nord America risorse non convenzionali («tight oil» e «shale gas»), alterando gli equilibri nel mercato dell’energia globale. Da grande consumatore gli Stati Uniti sono divenuti il maggior produttore di combustibili fossili nel 2014 ed entro il 2017, secondo l’Energy Information Administration, saranno un esportatore netto di gas.
La rivoluzione del greggio americano ha notevoli conseguenze geopolitiche. Perché ha vanificato finora la capacità dell’Opec di fissare un limite al prezzo del petrolio. Perché ne può deprimere i prezzi per anni con grande vantaggio per i principali paesi consumatori, ma con altrettanto rischio per gli stati petroliferi più vulnerabili. Perché ha enormi conseguenze sull’ambiente poiché il basso costo del barile riduce la domanda per energie alternative.
Le mutevoli dinamiche fra paesi produttori e paesi consumatori di energia stanno creando nuove opportunità di scambio e riorientano le relazioni geopolitiche. Come conseguenza dello «shale boom» e della rapida crescita delle importazioni statunitensi dal Canada (3 milioni di barili al giorno), l’export dell’Arabia Saudita, il primo produttore mondiale di greggio, verso gli Stati Uniti è crollato al livello più basso dall’inizio della crisi finanziaria.
La strategia di Riyad che, rinunciando al tradizionale ruolo di regolatore all’interno dell’Opec, ha lasciato cadere il prezzo del petrolio, ha mirato a indebolire i produttori rivali (Iran, Iraq, Russia) ma anche a ridurre la convenienza e le conseguenze della shale revolution, considerato che il suo export di greggio ha reso 2/5 meno di un anno fa. Perciò Riyad, memore del crollo nel prezzo del greggio del 1985-86 determinato dalla produzione del Mare del Nord, ha deciso di sfruttare appieno il vantaggio comparato dei suoi costi di estrazione fra i più bassi del mondo e di rivolgersi al mercato cinese. Dopo aver sofferto per il rallentamento della domanda e per gli accordi più vantaggiosi offerti a Pechino da Russia, Kuwait ed Emirati Arabi Uniti, i sauditi hanno deciso di intensificare la competizione con gli altri paesi Opec.
L’Asia sta divenendo, infatti, il principale mercato per i produttori mediorientali. L’export verso Pechino degli EAU è aumentato, in questi primi mesi del 2015, del 116% e quello del Kuwait del 98% in parte a spese dell’Arabia Saudita. Il Kuwait ha soppiantato l’Arabia Saudita anche come primo fornitore di Taiwan. Secondo l’EIA, la Cina – con quasi un milione di barili al giorno è oggi uno dei maggiori acquirenti di greggio saudita. L’impresa di stato China National United Oil Corporation è il più aggressivo acquirente sullo «spot market». Va ricordato che Pechino ha concluso accordi economici, politici e militari con numerosi stati ricchi di riserve energetiche, inclusi paesi africani come Algeria, Etiopia e Nigeria. Le imprese di stato cinesi hanno acquisito anche quote del porto di Gibuti (che, peraltro, è la base per le operazioni dei droni americani in Yemen e Somalia) e intendono investire in infrastrutture aeroportuali e ferroviarie di collegamento con l’Etiopia e il Corno d’Africa. Il crollo del prezzo del petrolio nel 2014 ha spostato gli equilibri a favore della strategia acquisitiva di Pechino che espande la propria influenza attraverso le grandi banche e imprese di stato. Così, fra i paesi produttori di greggio, il Venezuela, oberato da un elevato debito pubblico, ha impegnato la sua produzione con la Cina sulla base di un accordo di scambio fra petrolio e pagamento dei propri prestiti. Quanto a er-Riyad, il risentimento per come l’Amministrazione Obama ha gestito le trattative con l’Iran è un motivo in più per perseguire il programma atomico per il quale, dal 2008, con gli Usa non sono stati fatti sostanziali passi avanti. Innanzitutto perché l’Atomic Energy Act del 1954 imporrebbe anche ai sauditi di rinunciare ad arricchire l’uranio e al plutonio. Il programma nucleare consentirebbe all’Arabia di diversificare le risorse energetiche e di essere alla pari con l’Iran; ma senza un accordo con Washington finirebbe per creare nuove prospettive di alleanze funzionali con paesi asiatici.