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 2015  giugno 03 Mercoledì calendario

Una storia d’amore diverso e possibile. La famiglia, le ipocrisie, un lungo legame, le nozze gay: storia di un sentimento normale. Esce per Marsilio il memoir “I veri amori sono diversi” del giornalista Stefano Bucc,i che con il compagno ha ottenuto in Italia la prima registrazione di matrimonio omosessuale (ora cancellata)

Si piange un tot, leggendo I veri amori sono diversi, e si è stati ragazzi disadattati e in polemica con la famiglia e girandoloni e della generazione dei nati a fine boom. Ogni tanto si asciugano gli occhi, si fa una risata, e si viene confermati nei propri peggiori pregiudizi. Sui fiorentini, per la verità. Sulla cultura cittadina e nazionale della bella figura, dei non detti, delle ipocrisie, delle sofferenze conseguenti.
La storia si svolge quasi tutta a Firenze, ed è quella dell’autore, Stefano Bucci, giornalista culturale al Corriere della Sera, figlio di borghesi vecchia maniera, fidanzato per venticinque anni con un architetto che tre anni fa, a New York, ha sposato. Bucci e coniuge sono la prima coppia gay a riuscire a far registrare – nel 2014 – il loro matrimonio nel Comune di residenza, Grosseto. La registrazione è poi stata cancellata; loro sono impegnati in una battaglia legale perché venga confermata. Lo fanno, spiegano, «per il resto del mondo».
Per il quale è stato scritto il libro, poi; per far capire quanto poco strano possa essere un legame affettivo tra due dello stesso sesso; quanto si possa star male se si viene respinti o malvisti; quanto a ogni coppia servano tempo, pazienza e garanzie a norma di legge. E quanto «i veri amori siano diversi», certo. Lo dice a Stefano il parroco di casa. L’amore da perdonare è quello tra il papà e la mamma, così innamorati da escludere tutti, figli compresi.
La storia inizia in una vecchia villa dei viali, davanti a un padre vedovo che sta morendo e non è più in grado di ascoltare il figlio. Che gli dice, dopo decenni, «papà, sono un finocchio». Non che non si fosse capito. Ma siamo a Firenze, Italia. Tra la borghesia dei professionisti «con studio avviato» e delle loro graziose, eleganti, eufemistiche mogli, dette le pissere (sulle pissere, versione toscana medioalta delle madamin, esistono dei trattati). Dove il coming out del figlio diciannovenne è una metafora. Non è «sono gay»: è «non voglio fare il commercialista, voglio fare il giornalista». La reazione è micidiale. Il figlio dirazzato viene escluso dalla vita familiare, tenuto in casa per non far figuracce, e i genitori non gli parlano più, per anni, tranne quando ci sono ospiti. Lui esce la mattina e torna la sera tardi. Ha un lavoretto pomeridiano, nel resto del tempo scopre il mondo gay.
E l’altra faccia della gente perbene. E sono pagine divertenti. I primi amanti dello Stefano appena fuori dal liceo, uomini più grandi, paiono personaggi di Amici miei. Il professorone modello Sassaroli, con moglie, figlioli grandi e scannatoio a Ponte Vecchio; poi «il dottore con la bicicletta, l’architetto con il loden, l’impresario teatrale, l’antiquario rozzo ma simpatico». Negli anni, si scontrerà con un’altra ipocrisia, quella dei colti-e-di-sinistra che dicono ogni due per tre «frocio» e «culattone». Intanto, nel periodo triste e a rischio (di finire male, nel sottomondo del cruising gay), diventa esperto nell’arte della menzogna, Quella familiare, quella sociale, e la sua. Il dire e non dire, l’annunciare progetti senza mai muoversi. Fino all’incontro con Giuseppe, che diventa l’amore della vita. Che gli fa lasciare la casa di famiglia, che lo porta a impegnarsi per diventare giornalista davvero.
Ma i non detti continuano a far soffrire. Stefano prova a portare il suo compagno («l’amico con cui coabito») a cena dai suoi. Trova suo fratello e la fidanzata, imbarazzati, a dire «il babbo doveva portare un cliente a teatro, la mamma è dovuta andare con lui, sono tanto dispiaciuti». L’impossibilità di parlare con chi non vuole sentire (non sentiranno mai; quando Stefano parla, suo padre non è più cosciente) lo allontana dalla famiglia. Se ne crea un’altra, una tribù gay-etero-eccetera tra Firenze, Milano, Grosseto, America e Giappone. La mise da divi modaioli degli amici giapponesi al matrimonio, poi, fa ridere. E il matrimonio – deciso dopo l’incidente che capita a tutte le coppie gay, Giuseppe in ospedale, Stefano che non viene lasciato entrare – fa allegria. Fa allegria, dopo le opzionali lacrime, tutto il libro. Scritto con stile d’altri tempi, attuale nell’usare l’ autofiction per contribuire a un battaglia civile. Terapeutico, per molti e molte, forse.
Ps. A ciglio asciutto, due conti. Stefano s’indigna quando il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, definisce le nozze gay «un problema di ordine pubblico» in quanto l’Italia potrebbe diventare meta turistica di sposi/e omosessuali. Stefano potrebbe mandargli una stima di quanto hanno speso a Manhattan due sposi benestanti e i loro invitati tra alberghi, ristoranti, banchetto di nozze, mostre e shopping. E di quanti soldi arriverebbero a Roma, Venezia, Capri, Taormina, Amalfi e pure Firenze se gay e lesbiche di buon gusto potessero sposarsi qui. Calcolandolo, si piange ancora.