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 2015  giugno 01 Lunedì calendario

Andrea Zalone, attore, poi speaker, doppiatore, autore. Ecco chi è la penna (e spalla) di Crozza: l’officina in cui prendono vita i mille volti del Paese delle meraviglie «non è molto diversa dalla redazione di un giornale, solo che tutto ha uno sviluppo comico. C’è un grande lavoro di scrittura. Ma è un lavoro di gruppo di cui lui è l’autore principale. Lui che si cuce addosso il personaggio fino a farlo suo»

Se esiste un confine preciso in cui la luce dei riflettori sfuma nella penombra, è lì che trovi Andrea Zalone. Il gregario che voleva fare il mattatore, ma neanche troppo. Il numero 8 che là in mezzo sa fare un po’ di tutto. Ordina e cuce. Il Marchisio della satira italiana.
Esordi da attore, poi speaker, doppiatore, autore, infine “spalla”, in vent’anni Zalone ha circumnavigato set e palcoscenici. Sempre un po’ in disparte, dietro le quinte, con quella sobrietà sabauda che a 46 anni è indole, più che posa. Dalla sua Torino (“il divano di casa”) a una Milano un po’ “caserma”, un po’ paese delle meraviglie, fin dentro l’officina dove prendono vita i personaggi di Maurizio Crozza. Il numero 10. Di cui Zalone è penna – insieme ad altri sei autori – e da qualche anno spalla comica fissa. Grazie anche a quella voce “educata” da giovane attore pentito.
Alla fine tutto torna…
Da quella piccola esperienza mi è rimasta una voce impostata e la capacità tecnica di usarla. Perciò Mauri ha pensato a me quando ha avuto bisogno di qualcuno che gli facesse delle domande. Ci siamo trovati bene e da lì è partito tutto.
Senza una spalla, figure come Razzi, Fuffas e molte altre non esisterebbero neppure.
È un ruolo chiave nella comicità. Interpreta quello che il pubblico sta pensando a casa. Aiuta il comico perché tiene su il ritmo ed evidenzia ancora di più assurdità e paradossi di certi personaggi.
A chi si è ispirato?
Sono cresciuto con l’esempio di spalle e voci fuori campo clamorose come Serena Dandini e la Gialappa’s.
Con che altro è cresciuto?
Sono nato a Mirafiori, dove in quegli anni l’unica prospettiva era laurearsi in ingegneria e trovare lavoro in Fiat. All’inizio ci ho anche provato, ma ho passato un anno nella nebbia. Studiavo parecchio, ma mi hanno bocciato a quasi tutti gli esami. Poi mi sono laureato in Giurisprudenza, e nel frattempo ho cominciato a fare teatro. Però, dopo un po’, mi sono accorto che come attore ero veramente cane. Credo di aver fatto un gran favore allo spettacolo italiano, ritirandomi.
Alla scrittura come c’è arrivato?
Decisivo fu l’incontro con Beppe Tosco, l’autore della Littizzetto. Avevo messo su un gruppo di cabaret e lo aveva trovato interessante. Così abbiamo cominciato a lavorare insieme.
Da lì poi è arrivata la tv.
É stato Beppe a presentarmi a Gregorio Paolini, che nel 1999 stava facendo Convenscion su Rai 2. Lì ho scoperto per la prima volta che stare dietro le quinte era la dimensione in cui mi sentivo più a mio agio.
Nel 2006 l’incontro decisivo con Crozza.
Ci siamo capiti subito. Abbiamo cominciato con Crozza Italia, che era ancora registrato. Attorno a sé Maurizio ha saputo costruire negli anni una squadra fissa. Prima gli autori andavano e venivano. È stato lui ad insistere per ottenere dalla rete un gruppo fisso con cui lavorare.
Lei l’ha paragonata affettuosamente a una “caserma”…
La mattina ci mettiamo a lavorare nell’ufficio di Milano, e da lunedì a venerdì non abbiamo orari. Andiamo avanti a scrivere, pensare, informarci, smontare e riscrivere, sino a quando non si va in onda. Non è molto diversa dalla redazione di un giornale, solo che tutto ha uno sviluppo comico.
C’è chi dice: Crozza grande interprete, ma se non fosse per gli autori…
Ingeneroso. È vero che c’è un grande lavoro di scrittura: tutto quello che va in scena è scritto. Ma è un lavoro di gruppo di cui lui è l’autore principale. Lui che riscrive, rielabora, che si cuce addosso il personaggio fino a farlo suo. Anzi, semmai lavorare con Crozza significa anche un po’ annullarsi.
In che senso?
Lavoriamo tutti per Maurizio. Il prodotto è lui, con il suo pensiero a cui noi abbiamo dato un contributo. Per me è un valore. Il gruppo protegge sempre.
Qual è la maschera in cui c’è più di Andrea Zalone?
Difficile da dire, sono tutti scritti insieme. Quello che mi fa più sinceramente ridere è Razzi, però mi piacciono anche quelli più sottotono, tipo l’ultimo De Luca. È una comicità meno esplosiva, dove bisogna essere più misurati, lavorare sulle pause. Mi diverte molto anche Fuffas, in cui, da spalla, bisogna sottrarre molto, lasciare il tempo a lui di fare le facce.
Per questo ogni tanto scoppiate a ridere in scena?
Molte cose le scriviamo all’ultimo per seguire l’attualità. In ufficio le proviamo ma con un approccio più analitico. In diretta, invece, vedo Mauri che si trasforma, improvvisa. E lì ti rendi conto che quelle stupidaggini fanno davvero ridere… E ti dici: mamma mia che roba assurda che abbiamo scritto!
Il telefono è mai squillato per un’imitazione non gradita?
Qualcuno che si è offeso c’è stato, senza che mai si traducesse in una telefonata. In passato Formigoni aveva twittato: “Crozza si merita una querela”. Ma è finita lì.
Pressioni?
Mai. Maurizio in questo è categorico: non vuole avere rapporti con nessuno. Non accetta telefonate dirette dai personaggi che imita, non ci va a cena fuori. Sono anni che lo frequento, mai visto telefonare o confrontarsi con qualcuno.
L’unica eccezione è Grillo, con cui non fa mistero di essere amico.
È un’amicizia di vecchia data, entrambi sono genovesi. Ma non l’abbiamo mai avvertita, sul lavoro non è mai entrata. E, quando si è trattato di prendere in giro Grillo o i 5 Stelle, l’abbiamo fatto in totale libertà, anche nonostante gli insulti e gli improperi dei grillini sulla pagina Facebook di Mauri.
La politica le interessa o l’annoia?
Facendo satira politica, ormai è diventato il mio pane quotidiano. In realtà mi ha sempre interessato sin dagli studi di giurisprudenza. Mi piaceva studiare la Costituzione, le leggi, le regole. Uno degli esami che più mi hanno segnato è stato Diritto Costituzionale con Zagrebelsky.
Chi è Andrea Zalone fuori dalla tv?
Ho una famiglia meravigliosa a Torino, da cui ritorno ogni weekend.
E un figlio doppiatore, come il papà.
Sì, ma ha preso dalla madre, che è direttrice di doppiaggio. A 21 anni, sta cominciando ad andare a Roma per farsi conoscere negli studi importanti.
Se le chiedesse una raccomandazione?
A Roma non conosco nessuno. Ho sempre doppiato solo qui a Torino o a Milano, dove i grandi film di sala non arrivano. Poi lui ha la fortuna che si chiama Zalone, anche se tutti lo scambiano per il figlio di Checco…
Capita anche a lei?
Di continuo. Quando prenoto al ristorante, il primo impatto è capire se sono fratello o parente. Oppure sperano che arrivi Checco, e quando mi vedono rimangono delusi. Altre volte mi riconoscono: “Ah, ma è quello che lavora con Crozza”. E, a quel punto, parte un’ammirazione spaventosa. Ma è tutta per lui.
Com’è la vita del “secondo”?
Si vive di luce riflessa. Però, dal punto di vista psicanalitico, è anche la mia condizione ideale. Ho provato a fare l’attore, quello che si mette al centro e si esibisce, e mi dava tanta ansia. Nella penombra mi sento veramente a mio agio.
Una rivoluzione, in un Paese di aspiranti mattatori…
Guai se tutti dovessero esserlo. Io sono per la rivalutazione del famoso passo indietro. In primo piano dovrebbe starci solo chi ha i numeri e il talento per farlo. Sgomitare per la visibilità e la popolarità può essere un’arma a doppio taglio.
L’elogio della penombra…
C’è un gran bisogno di gente che compia un passo indietro. Oggi con i social ognuno ha i suoi 20 secondi di popolarità. Siamo tutti opinionisti, tutti showgirl e showman. Perché, invece, non fare un talent sui numeri due?
Si candida per la giuria?
Ecco, forse si, me la sentirei, di queste cose un po’ me ne intendo. Ma non lo guarderebbe nessuno.