il Fatto Quotidiano, 1 giugno 2015
Al quinto piano della Farnesina, lì dove si salvano gli italiani. Nella sede dell’Unità di crisi del ministero degli Esteri, 30 dipendenti, 4 diplomatici, 18 funzionari e 8 tecnici sono sempre in stato di emergenza, dal semplice incidente stradale al sequestro di persona, dalla guerra in Iraq al terremoto in Nepal. Ecco come lavorano e come hanno fatto uscire il gruppo di connazionali dal museo del Bardo a Tunisi
C’è il megaschermo in cui passano senza soluzione di continuità le immagini dei canali all-news, un grande orologio digitale da parete che segna l’ora esatta nelle principali città del mondo. Al centro della stanza un grande tavolo a ferro di cavallo: quando, in qualsiasi parte nel mondo, la terra trema violentemente, giunge notizia di un grosso attacco terroristico, esplode una rivolta o un italiano viene sequestrato la ventina di postazioni che lo circondano si riempiono e un gruppo scelto di tecnici e diplomatici lavora ininterrottamente, senza pause notturne.
Siamo al quinto piano della Farnesina, dove ha sede l’Unità di crisi del ministero degli Esteri. A separare i trenta dipendenti – quattro diplomatici, diciotto funzionari e otto tecnici – dal resto dei “ministeriali” c’è ben più che la sottile porta a vetri all’ingresso. “Quando siamo in emergenza, ad esempio durante il terremoto in Nepal, viene prioritariamente impiegato il personale in servizio in questi uffici, anche l’archivista e gli amministrativi, e solo se la dimensione della crisi lo impone chiediamo sostegno alle altre strutture del ministero”, spiega Claudio Taffuri, il capo dell’Unità di crisi.
Mentre spegne una sigaretta, e la pausa che lo separa dalla prossima sarà breve, Taffuri mostra le foto dell’attentato che ha distrutto il compound della Nato ad Herat: “Ho contribuito ad aprirlo. Quel giorno c’ero anch’io”. Taffuri parla del suo curriculum: durante il bombardamento di Belgrado della guerra in Kosovo, 72 giorni di attacchi dal cielo, il primo diplomatico occidentale ad arrivare è stato lui. Un bel cambio per uno che, prima di approdare alla Farnesina vent’anni fa, faceva il libero professionista. Per questo ha scelto un incarico “in prima linea”: tanti rischi, certo, ma non quello di annoiarsi. “L’incendio della Norman Atlantic, la liberazione di Greta e Vanessa in Siria, il disastro Germanwings, il terremoto in Nepal, il rimpatrio del medico di Emergency colpito dall’Ebola, la morte di Giovanni Lo Porto in Afghanistan, la chiusura delle ambasciate a Tripoli e a Sana’a: sono stati mesi pieni”.
La parte iniziale del lavoro dell’Unità di crisi può sembrare simile a quello di una redazione giornalistica. C’è un grande flusso di informazioni in entrata – informative delle ambasciate, militari e dei servizi segreti, oltre alle agenzia di stampa – che viene analizzato. L’obiettivo è verificare se qualche italiano è coinvolto: “Questo riguarda anche gli eventi minori, perfino un incidente d’auto in Ruanda”. Se si trovano riscontri, si passa alla parte operativa. L’esempio più affascinante è probabilmente quello dell’attentato o del Bardo a Tunisi. “Probabilmente, quando sono stati esplosi i primi colpi, molti ignoravano l’esistenza di questo museo”, ricorda Taffuri. All’interno però c’erano decine di connazionali. Dalla sala centrale sono iniziate le triangolazione con l’ambasciata e la polizia tunisina. Grazie a un agente sul posto, l’Unità di crisi ha individuato una via di fuga all’interno del museo. Nel giro di qualche minuto è stato contattato uno dei turisti “intrappolati” e, attraverso di lui, il gruppo di turisti italiani è stato guidato all’esterno, con il cellulare.
La collaborazione con gli italiani in loco è fondamentale. Così può capitare che una guida turistica, o il personale di una ong, vengano incaricati del lavoro solitamente riservato a diplomatici e tecnici logistici. L’esempio che Taffuri ricorda con maggiore orgoglio è quello dell’evacuazione di 160 italiani dal Sud Sudan nel dicembre 2013. Vista l’assenza di un’ambasciata italiana, a gestire le operazioni sul campo è stata l’ong Intersos che, coordinata da Roma, ha contattato tutti i connazionali, li ha suddivisi in gruppi e li ha portati all’aeroporto di Juba dove un C130 ha riportato tutti a casa. “I tedeschi sono arrivati due giorni dopo. Gli americani quattro, quando si era già ricominciato a sparare”.
A livello di mole di lavoro, l’emergenza recente più impegnativa è stata quella del Nepal, con oltre 400 italiani nel Paese da raggiungere, mentre negli elenchi della Farnesina risultavano soltanto poco più di una decina di turisti. Capire chi si trovava effettivamente nel Paese himalayano è stata la parte più difficile. Si è arrivati a stilare un elenco completo grazie alle segnalazioni dei familiari e alla collaborazione delle compagnie telefoniche, che hanno segnalato al ministero degli Esteri tutte i possessori di carte sim italiane attive in Nepal. Viceversa, “i registri delle compagnie aeree sono tutelati dalla legge sulla privacy e nemmeno noi possiamo accedervi”. Il primo contatto è stato un sms che chiedeva ai connazionali di mettersi in contatto con l’Unità di crisi. Solo in seconda battuta, quando le dimensioni della crisi era diventata chiara, è stata inviata una squadra mista, insieme alla Protezione civile, per rintracciare gli italiani ancora irreperibili. “Abbiamo inviato una piccolo team, gli spagnoli erano un centinaio”, fa notare Taffuri, eppure l’Italia è stata tra i primi Paesi europei a rintracciare tutti i connazionali.
Il caso Nepal fa luce su un’esigenza che il capo dell’Unità di crisi sottolinea a ogni intervento pubblico: l’uso del sito Dove Siamo nel Mondo, dove ogni viaggiatore può registrarsi e far sapere al ministero dove si trova. La ragione è semplice: come dimostra il caso Nepal, lo sforzo di tempo e risorse per compilare l’elenco degli italiani sul luogo di un’emergenza può essere enorme. Questo significa ritardare l’inizio dei soccorsi veri e propri, terminare le operazioni di ricerca più tardi e prolungare inutilmente l’ansia dei familiari. “Non temete per la vostra privacy: i dati si cancellano automaticamente alla vostro ritorno. Nonostante i tanti pericoli, è giusto continuare a viaggiare, ma fatelo in maniera responsabile”, insiste Taffuri. La reticenza a rendere noti gli spostamenti non riguarda solo i singoli turisti, ma anche le agenzie di viaggio: “Per inserire sul proprio portale il link al sito Viaggiare sicuri, c’è stato anche chi voleva farsi pagare, come se si il nostro fosse un banner pubblicitario”.
Il sito ha anche un’altra funzione: rendere note le aree del globo dove è sconsigliabile recarsi. Qualche volta capita che qualcuno si lamenti quando la propria meta rientra in questa categoria, ma il rischio non sembra giustificato dalle informazioni che circolano sui giornali.
“I nostri comunicati sono un elisir di informazioni, che raccolgono anche analisi redatte dall’intelligence. Cerchiamo di prevedere i rischi”. Come nel caso del rapimento di due appassionati di treekking nello stato indiano di Orissa: “Avevamo segnalato che quella era una zona a rischio”. Di quel rapimento, conclusosi favorevolmente nel 2012, Taffuri ricorda i sequestratori maoisti: “Ora che tutto si è concluso, posso dire che erano tra i più comprensivi con cui abbiamo avuto a che fare”. In ogni caso, se per l’estate state pianificando una vacanza in una meta a rischio, consultate il sito dell’Unità di crisi. “E se avete dei dubbi, chiamateci o mandateci una mail. Non costa nulla”.