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 2015  giugno 01 Lunedì calendario

Israele ha sconfitto la siccità. Con la desalinizzazione del mare, tanta tecnologia, riciclaggio e un po’ di buon senso la gestione l’acqua non è più un problema. Anzi la sua agricoltura è diventata la più ecologica al mondo. Ecco i segreti di un modello

Esteso quanto sei campi da calcio, collegato al Mar Mediterraneo da una rete di tubi di 2,5 metri di diametro e in grado di produrre 624 mila metri cubi di acqua al giorno: è l’impianto di desalinizzazione di Soreq, ovvero il gioiello di tecnologia idrica che ha consentito a Israele di sconfiggere la siccità.
Inaugurato nel 2013 a circa 10 km a Sud di Tel Aviv è «il più grande e avanzato impianto di desalinizzazione del Pianeta» spiega Avshalom Felber, ad di Ide Technologies che lo ha realizzato, e consente di produrre l’acqua potabile necessaria a un sesto degli otto milioni di abitanti del Paese con un sistema realizzato sulla base degli studi di Sidney Loeb, scienziato americano nato nel 1917 a Kansas City, immigrato a Beersheba nel 1967 e inventore dell’«osmosi al contrario». Il risultato sono forniture per un costo massimo di 500 dollari annui a famiglia.
Per capire come funziona basta affacciarsi sui grandi silos che compongono l’impianto: l’acqua del Mediterraneo viene aspirata da tubi giganti, filtrata attraverso «membrane» hi-tech che la trasformano in acqua potabile, ottenendo dei residui salini – la «brina» – che vengono restituiti al mare. È così che Israele ottiene il 20% dell’acqua necessaria alle città che, sommata agli altri impianti simili realizzati a Ashkelon, Palmachim, Hadera e Ashdod – l’unico ancora in costruzione – somma il 40% del fabbisogno nazionale, destinato a diventare il 70% nel 2050. 
Le contromisure
L’accelerazione sulla desalinizzazione risale al 2007 con la creazione di un’«Autorità delle Acque» che si rese necessaria per trovare una risposta alla siccità record dei 6 anni precedenti e consente oggi allo Stato ebraico di emanciparsi da questo pericolo è perché, sottolinea Gidon Bromberg direttore dell’associazione ambientalista «Americi della Terra in Medio Oriente», «si somma ai risultati nel riciclaggio delle acque e di una riduzione delle perdite». La capacità di riadoperare le acque già usate tocca l’86% del totale – un record assoluto, basti pensare che al secondo posto c’è la Spagna con il 17% mentre gli Stati Uniti sono fermi all’1 – andando a coprire il 55% del fabbisogno totale dell’agricoltura grazie a declinazioni innovative dell’alimentazione a goccia simili a quelle che il padiglione israeliano all’Expo 2015 mette in mostra con i campi verticali. 
La riduzione delle perdite è stata invece, dal 2007, del 18% per l’effetto combinato di nuove tecnologie capaci di identificarle in tempo reale e di un maggior autocontrollo da parte dei consumatori. La conseguenza è che una nazione composta al 60% di deserto per la prima volta dalla sua creazione, 67 anni fa, non teme la sete nè le guerre per l’acqua, potendo invece trasformare le tecnologie idriche in un ponte di cooperazione verso altri Paesi. 
L’esempio viene dal progetto per 900 milioni di dollari, varato in febbraio dalla Banca Mondiale, che vedrà realizzare entro il 2018 un centro di desalinizzazione nel porto di Aqaba consentendo la condivisione dell’acqua potabile ottenuta fra Giordania, Israele e Autorità palestinese. Depositando la «brina» ottenuta nel Mar Morto, che sarà collegato al Mar Rosso da un canale idrico per sostenerne il livello. Nulla da sorprendersi se gli impianti di desalinizzazione attirano reazioni opposte: nell’agosto scorso Hamas tentò di colpirli con i razzi mentre il presidente ugandese Yoweri Museveni, appena sbarcato a Tel Aviv, ha chiesto di conoscere da vicino Soreq così come a visitarlo – con assai più discrezione – sono stati gli inviati di alcuni Paesi africani senza relazioni diplomatiche con Israele.
Le critiche ambientaliste
Le obiezioni nei confronti di Soreq arrivano dai gruppi ambientalisti israeliani che contestano la tecnica di aspirare acque dalle profondità del Mediterraneo considerandola dannosa per l’ecosistema, ma Micha Taub, ingegnere chimico dell’impianto, risponde: «Di ogni 100% di acqua marina, la metà diventa consumabile e metà torna al mare, limitando al massimo conseguenze per l’ecosistema» come dimostra il fatto «che finora non vi sono state proteste dei pescatori».