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 2015  giugno 01 Lunedì calendario

8, 5 e 2 per mille. Ci sono tasse che gli italiani pagano volentieri. Uno su due ha deciso di sostenere la Chiesa e le associazioni no profit ma solo in 16mila hanno pensato ai politici: altro che i 7,7 milioni di euro preventivati dal governo Letta. Alla fine ai partiti andranno soltanto 325mila euro. Briciole che dimostrano la scarsa fiducia nelle istituzioni

Non siamo ai livelli del ministro (buonanima) Tommaso Padoa-Schioppa, per il quale «le tasse sono bellissime». Però c’è qualche imposta che gli italiani versano volentieri, non se ne lamentano, anzi le scelgono pure, firmano per decidere dove destinarle. Sono le «tasse del mille». L’8 per mille alle confessioni religiose e il 5 per mille alle associazioni non-profit. Dall’anno scorso se n’è aggiunta una terza, voluta dal governo Letta per cercare di tacitare l’ondata di antipolitica, cioè il 2 per mille ai partiti. Ma a differenza degli altri due, questo meccanismo è un disastro totale. Se gli italiani compilano con passione le caselle dell’8 e del 5 nella dichiarazione dei redditi, quelle del 2 per mille restano bianche. Invece che riavvicinare i cittadini alla politica trasformando il sistema del finanziamento pubblico ai partiti, il nuovo sistema di sovvenzione ha ottenuto l’effetto contrario. È la fotografia di una distanza sempre più profonda. Viceversa le altre due tasse funzionano, eccome, al punto che il governo Renzi voleva replicare il sistema per indirizzare un altro 5 per mille di imposte alle scuole paritarie. La Camera tuttavia ha accantonato la proposta, forse se ne riparlerà con la prossima legge di stabilità.
L’8 per mille nacque con la revisione dei Patti Lateranensi. Dal 1985 la Chiesa cattolica (meglio, la Conferenza episcopale italiana) e altre confessioni non ricevono più contributi diretti dallo Stato per retribuire il clero, costruire chiese e aiutare le iniziative di carità, ma incassano una parte dei tributi Irpef. È il contribuente, e non più l’ente pubblico, a stabilire quanto, come e dove devono essere utilizzate le imposte versate. Dopo vent’anni da quella prima novità, il principio è stato replicato per il Terzo settore: ne beneficiano attività di volontariato, ricerca scientifica e sanitaria, associazioni sportive dilettantistiche. Il successo si è ripetuto e il provvedimento è diventato permanente poche settimane fa.
I PREFERITI
Le cifre parlano chiaro. Secondo una relazione della Corte dei conti dello scorso novembre, su 41 milioni di contribuenti sfiora la metà il numero di coloro che firmano per dire all’erario dove mandare una parte del prelievo. Nel 1990 la percentuale di firme per l’8 per mille era pari al 53,6; è progressivamente scesa fino a toccare il minimo storico nel 1999 (36,6) per poi riprendersi e attestarsi tra il 45 e il 46 per cento, cioè 18-19 milioni di scelte. Quanto alla destinazione, la Chiesa cattolica ha sempre primeggiato incontrastata aggiudicandosi l’80 per cento delle opzioni e, quindi, dei fondi resi disponibili dallo Stato (oltre un miliardo di euro nel 2013, ultimo anno di cui sono disponibili i dati, su quasi 1,3 miliardi). Le altre confessioni religiose negli anni sono rimaste sostanzialmente stabili con l’eccezione della Chiesa valdese che ha registrato una crescita progressiva fino all’attuale 1,4 per cento circa.
Anche il 5 per mille ha immediatamente incontrato il favore del popolo dei tartassati con una quantità di opzioni leggermente inferiore, tra i 15 e i 16 milioni pari al 40 per cento della platea contributiva con un valore di quasi 400 milioni di euro nel 2013. Negli anni il numero delle scelte espresse non è variato di molto, mentre si sono registrati spostamenti tra le categorie di beneficiari: è cresciuta la fiducia verso le Onlus e le associazioni di volontariato a scapito degli enti di ricerca scientifica e sanitaria. Dato l’altissimo numero di possibili destinatari non si raggiungono gli introiti dell’8 per mille. Le maggiori simpatie dei contribuenti si concentrano verso associazioni e fondazioni contro le malattie più gravi (cancro, leucemia, sclerosi multipla), organizzazioni di medici che operano nel Terzo mondo (Emergency, Medici senza frontiere), ospedali e Unicef.
VOGLIA DI DECIDERE
Dunque, agli italiani piace questa forma di decentramento nell’indirizzo della spesa pubblica. È un elemento di quella che costituzionalisti ed esperti di finanza pubblica chiamano la spesa sussidiaria orizzontale: lo Stato favorisce l’iniziativa autonoma dei cittadini per svolgere attività di interesse generale. A questa categoria appartengono detrazioni, deduzioni, incentivi, voucher e, appunto, gli istituti del 5 e 8 per mille. «La frequenza delle scelte denota l’affezione del contribuente a questi meccanismi», conferma Gianmaria Martini, ordinario di economia politica all’università di Bergamo e curatore del Rapporto 2014-15 pubblicato dalla Fondazione per la sussidiarietà.
Spiega il professor Martini: «Il cittadino vuole essere responsabile delle scelte sulle risorse pubbliche. È un segnale importantissimo. Fino a qualche anno fa vigeva un modello unico, il suddito paga e lo Stato o l’ente territoriale dispone. Giusto che ciò avvenga per contesti come la difesa nazionale, la sicurezza, i rapporti con l’estero, la fiscalità generale; ma negli anni è cresciuta la richiesta dei contribuenti di incidere maggiormente sulle spese più prossime: l’istruzione, l’assistenza sociale, la sanità e il welfare».
LA POLITICA DELLA FIDUCIA
È una strada percorribile? In parte è «una scommessa», dice Martini: «Lo Stato dovrebbe investire molto di più su quello che dice la Costituzione. Fidarsi dei cittadini, lasciare che scelgano il modo migliore di curarsi, assistere i malati cronici, istruire i figli, riconoscendo in questa scelta un bene pubblico che viene tassato meno». Il Rapporto, incentrato sul legame tra sussidiarietà e spesa pubblica, dimostra poi che questa strategia si traduce in una crescita del Pil: basterebbe decentrare il 10 per cento della spesa pubblica per far salire dello 0,6 per cento il prodotto interno pro capite. In questo processo il fattore fiducia è cruciale. Lo dimostra il fatto che la quota di contribuenti che versa l’8 per mille alla Cei (38 per cento) è ben superiore al numero di cattolici praticanti, che secondo le rilevazioni del Censis si colloca attorno al 25 per cento della popolazione. Ma quanto conti la fiducia balza agli occhi guardando l’accoglienza ricevuta dall’ultima arrivata tra le «tasse per mille»: il 2 ai partiti. Qui domina l’antipolitica e il consenso alla casta sta a zero. Non si tratta di sussidiarietà, il problema è diverso: niente soldi alla politica, niente rischi di «schedatura». Un conto è dichiarare il credo religioso, altra questione è svelare al ministero delle Finanze il partito di riferimento.
LA SFIDUCIA NELLO STATO
La lontananza e il discredito della politica risaltano anche da altri aspetti. Le quote dell’8 per mille allo Stato e del 5 per mille ai comuni sono minoritarie: sono pochi i contribuenti convinti che l’amministrazione pubblica sappia impiegare bene le risorse. Raccolgono poco anche le fondazioni legate a singoli politici o gruppi di interesse politico ammesse al 5 per mille. Fatto sta che soltanto 16.518 contribuenti, 4 su 10mila, hanno destinato il loro 2 per mille ai partiti nel 2014, primo anno di questo nuovo strumento. Il Pd, primo partito finanziato con il 61 per cento dei fondi complessivi, ha convinto soltanto 10mila militanti a regalargli un po’ di quattrini. La massa dei tesserati se n’è tenuta alla larga. E agli altri partiti è andata pure peggio. Un disastro totale. L’aspetto più paradossale della vicenda è che il governo Letta, autore di quella riforma fiscale, aveva messo in preventivo 7,75 milioni mentre dovrà erogare appena 325.709 euro. E ci si chiede che fine faranno i fondi non distribuiti: i partiti, per i quali il 2 per mille doveva sostituire a poco a poco il finanziamento pubblico, si faranno assegnare ugualmente quel tesoretto di 7 milioni e mezzo? Nonostante la falsa partenza il numero dei pretendenti è cresciuto: gli 11 partiti del 2014 sono diventati 19 nel 2015. In ossequio al sempiterno «pochi, maledetti e subito».

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Se prendiamo il totale dei soldi incassati dai partiti grazie al 2 per mille e lo dividiamo per il numero delle opzioni espresse, avremo ottenuto un dato di un certo interesse: il valore medio delle donazioni. Ed è una somma piuttosto modesta, 20 euro scarsi a testa. Non dipende da braccini lunghi o corti, tirchieria o generosità, perché è una quota del reddito. Corrisponde a un prelievo medio di 10mila euro annui e quindi, ipotizzando un’aliquota media del 25-30 per cento, a un imponibile di 25-30mila euro. Il reddito medio degli italiani.
La cosa si fa più intrigante se si va ad analizzare partito per partito per capire chi ha incamerato le quote maggiori e minori. E qui le sorprese non mancano. Il partito dei Paperoni è Scelta civica, che guadagna la miseria di 7.102 euro da appena 156 donatori: significa una media di 45,5 euro a testa. Quello fondato da Mario Monti è perciò il movimento politico che vanta i sostenitori più ricchi. Segue un’altra sorpresa perché il secondo partito in questa classifica è la Südtiroler Volkspartei con un gettito di 32,5 euro per ogni finanziatore mentre il terzo è Forza Italia con 29,8 euro in media. In Alto Adige si vive bene e si guadagna altrettanto bene. In cifra assoluta la Svp occupa la quinta posizione generale con 16.600 euro dietro a Pd, Lega Nord, Forza Italia e Sinistra ecologia e libertà.
Il partito sostenuto dagli elettori che pagano meno Irpef è quello di Nichi Vendola: appena 14,6 euro a testa. Va un po’ meglio alla Lega Nord con 15,3 euro. Forze popolari che pescano molti voti tra le fasce sociali meno abbienti dell’Italia di oggi. Ma Sel e Carroccio sono anche tra i partiti che sono riusciti a mobilitare più sostenitori. La Lega è addirittura seconda con 1.839 opzioni (e un assegno di 28.140 euro) dietro il Partito democratico, che invece ha fatto man bassa: 10.157 firme per complessivi 199.099 euro.
La capacità di convincere gli elettori a farsi dare del denaro è segno di vitalità, ma gli spazi di crescita sono immensi. Come farebbe un partito come il Pd a sostenere congressi, tesseramenti, sezioni, campagne elettorali con meno di 200mila euro all’anno per l’intero territorio nazionale? Proprio il Pd era stato il più restio a varare il nuovo sistema di finanziamento pubblico: i suoi leader erano convinti che il 2 per mille avrebbe premiato i partiti moderati, sostenuti dal ceto medio, la borghesia con buoni stipendi e un’Irpef crescente in misura più che proporzionale.
Ma è proprio questa classe sociale che è venuta meno all’appello dei partiti del centrodestra, gli elettori più disillusi e sfiduciati, che spesso si astengono dal voto e ora anche dal donare il proprio obolo alla causa. Il popolo dei moderati ha voltato le spalle ai loro rappresentanti: in tutto il Paese Forza Italia ha messo assieme 829 firme, Fratelli d’Italia 510, Scelta civica 156, l’Udc 114.
Quest’anno le campagne di comunicazione per raccogliere fondi sono state lanciate con anticipo ma è una propaganda al buio. Ma l’esito del battage è tutt’altro che garantito. E il costo delle spese pubblicitarie rischia di non essere neppure coperto dal gettito del 2 per mille.