Il Messaggero, 1 giugno 2015
La solitudine del Sol Levante. In Giappone è in atto un vero mutamento antropologico: non solo continua il calo demografico, che va di pari passo con la crisi economica, ma i giovani sono sempre più chiusi e apatici. È stata soprannominata la sindrome del celibato: niente sesso né incontri, regrediscono persino i contatti virtuali. Tanto che a Facebook si preferisce il più riservato Line
Se è vero che esiste uno stretto legame tra crescita demografica e sviluppo economico di un Paese, allora il Giappone rappresenta certamente il caso più eclatante di questo rapporto degenerato.
Recentemente l’OCSE ha messo in guardia la leadership del Giappone: se non verranno prese al più presto misure per riformare il sistema fiscale e arginare la diminuzione della forza lavoro il debito andrà fuori controllo. Le politiche soprannominate “abenomics” avevano lo scopo di annullare la deflazione, aumentare la spesa pubblica per rivitalizzare l’economia, e ridurre quindi il mostruoso debito di 10,5 trilioni di dollari (quello greco a confronto, 335 miliardi, è una goccia nel mare).
Ma ogni politica economica ha i suoi limiti, figuriamoci quella di un Paese che vede la propria popolazione invecchiare a vista d’occhio. Quest’anno il numero di bambini d’età fino ai 14 anni si è attestato a 16,2 milioni. Sono 160.000 in meno rispetto all’anno precedente, cioè solo il 13% della popolazione. Il trend negativo di nascite non è un’emergenza degli ultimi anni ma viene da lontano, addirittura dal 1975, ovvero da quando il numero di figli è sceso sotto la media di due per coppia. Ma se nei Paesi avanzati del resto del mondo il calo demografico viene generalmente addebitato a cause di natura economica (meno reddito, meno figli) il Giappone è un caso a parte.
IL CAMBIAMENTOUltimamente si sta vivendo un vero e proprio mutamento antropologico. Le nuove generazioni sembrano affette da qualcosa che qui chiamano la “sekkusu shinai shokogun”, ovvero la sindrome del celibato (letteralmente “sindrome di mancanza di sesso”). Ci hanno provato in tutti i modi ad invertire il trend. Si sono aperti bar per soli single, dove gli uomini sono disposti a pagare anche 50 euro (le donne solitamente la metà) alla disperata ricerca di un incontro che può durare una sera o chissà, tutta una vita. Nelle grandi metropoli spopolano i locali di speed dating, dove ci si può cimentare in una serie di brevi e privati incontri a rotazione veloce con diversi partner.
Qualche anno fa addirittura la Confindustria del Paese si mobilitò per promuovere la cosiddetta «settimana della famiglia», ovvero vacanze più flessibili per gli impiegati (che tornano a casa sfiniti da orari di lavoro massacranti) in modo da poter trascorrere più tempo con le mogli e i figli, nella speranza che questo avrebbe indotto a spendere anche più tempo in camera da letto. Né questa, né altre misure del genere, sembrano aver funzionato per riportare la fertilità a livelli meno allarmanti.
LE PROSPETTIVEE se guardiamo al futuro le prospettive non sembrano più rosee. Il Giappone ha sempre avuto un’immagine di Paese piuttosto ancorato alle sue tradizioni, restio ad aprirsi alle influenze che venivano da fuori, non è un caso che ancora oggi rispetto ad altri paesi asiatici avanzati sia uno dei meno predisposti ad accogliere la lingua inglese (in molti musei addirittura le didascalie compaiono solo in giapponese, e quando l’inglese c’è è spesso tradotto alla buona).
Oggi si può ben dire che quell’immagine di chiusura non è solo confermata ma perfino rilanciata. Rispetto alle vivaci dinamiche sociali che si riscontrano nel resto del globo, dove anche grazie alle numerose applicazioni per smartphone le occasioni di scambio e di incontro si sono moltiplicati, qui si nota una sostanziale regressione delle interazioni sociali. Uno studio ha rivelato come un terzo delle persone sotto i 30 anni non abbia mai avuto alcun tipo di rapporto intimo con l’altro sesso. Una sorta di apatia generazionale sembra cogliere i giovani giapponesi, che si riflette anche nell’uso delle applicazioni sociali: Facebook non ha il successo che ha avuto in altri Paesi, rimpiazzato dal più discreto Line dove la comunicazione è sostanzialmente privata e le esperienze non vengono condivise pubblicamente.
LA RICETTAQui in Giappone c’è un detto (che deriva da una vecchia storiella cinese): “I no naka no kawazu taikai wo shirazu”. Una rana nello stagno non conosce il grande mare. Come la rana si trova a proprio agio e non vuole saperne di esplorare oltre il suo piccolo mondo, così il giapponese contemporaneo tende a rinchiudersi in se stesso. Come invertire la tendenza (e sperare magari in un rilancio dell’economia)? Viaggiare di più (uscire dallo stagno) è la soluzione proposta da molti sociologi. Eppure d’estate la gran parte dei giovani studenti sono costretti a passare le proprie vacanze immersi nelle attività dei vari bukatsu (circoli sportivi studenteschi).
E i diretti interessati cosa ne pensano? Recentemente un amico gesuita mi raccontava come pochi mesi fa fosse stato convocato d’urgenza da una famiglia di conoscenti presso Tokyo. La ragione? Al figlio maggiore di 17 anni era stata offerta l’occasione di una vita: studiare in America per un interno anno. Il sogno di ogni ragazzino di quell’età, giusto? Sbagliato. Quello non ne voleva sapere di partire. Il gesuita doveva convincerlo perché ci avevano già provato tutti, nonni compresi. Fallendo miseramente.