Corriere della Sera, 1 giugno 2015
Il giornalista del Corriere Olimpio racconta il suo viaggio nel deserto per piantare una croce per un messicano morto sul confine. Con Gps, acqua e cemento in Arizona i Samaritani tentano di dare una tomba ai 2.200 senza nome
Alvaro ha scavato il buco. Ron vi ha rovesciato dentro un po’ di cemento. Shura ha aggiunto l’acqua. Poi, insieme, hanno piantato la croce. Infine, un istante di raccoglimento per ricordare una persona sconosciuta, morta non si sa quando e non si sa come. L’unico dato certo è il ritrovamento delle sue ossa, un giorno del 2002, in fondo al Canyon Bellatosa. Un immigrato clandestino arrivato dal confine messicano, distante appena otto chilometri, e spirato a pochi metri da un piccolo bacino per le mucche. Forse ha bevuto quell’acqua, che non disseta ma avvelena.
L’uomo senza nome è uno dei tanti che hanno fatto questa fine crudele. Solo nel sud dell’Arizona, oltre 2.200 persone hanno perso la vita cercando di raggiungere in modo illegale gli Stati Uniti. E pur di arrivarci si sono avventurati in un territorio difficile, dove si vince o si perde ad una roulette crudele. Sulla ruota del destino può «uscire» il serpente a sonagli, il calore tremendo, la caduta rovinosa, il bandito della frontiera, i vigilantes.
Oppure il «coyote», cioé la guida, abbandona il cliente brutalmente perché, anche se ha pagato fino a 5 mila dollari, non è in grado di tenere il passo. Allora lo sfortunato si siede sfinito e prega nella speranza che arrivi un aiuto. Ci vuole però tanta fede, di qui passano in pochi. Qualche cow boy, la Border Patrol e i Samaritani, persone generose che battono il deserto per portare soccorso, lasciare dell’acqua e piantare le croci.
Alvaro detto Al, professione artista, è tra questi. E lo sono anche gli altri, spesso guidati dalla tempra di Shura Wallins, volontaria che dedica la sua vita al prossimo sulla frontiera. Oggi, in testa alla fila, che risale un crinale, c’è anche Antie. Tedesca, nata vicino a Berlino, giovane geografa, porta in spalla una delle croci e tiene in mano il Gps con le coordinate. I dati li raccolti un ex professore di geologia che ha ricostruito i sentieri seguiti da quelli che la burocrazia definisce «aliens», gli alieni. La parola fa pensare a Marte, anche se gli immigrati sono molto terreni.
Il «programma delle croci» è iniziato un anno fa e da allora, ogni settimana, la pattuglia dei Samaritani esce per la sua missione. Ne hanno già piantate 150 di croci, una minima parte del lavoro. Alvaro spiega che non hanno un significato religioso. O meglio, per chi crede sono un simbolo di fede, gli altri le considerano semplicemente come un elemento per ricordare un essere umano.
È incredibile vedere dove il destino abbia portato questi immigrati. A volte sono zone talmente impervie che le evitano persino gli animali selvatici. È sempre il caso, mescolato alle scelte dei trafficanti, a determinare l’epilogo. A volte gli immigrati muoiono sotto un dirupo invisibile nel buio della notte. O a due metri da una strada, persino alle spalle di un ranch.
Seguendo le indicazioni di Antie, precisa quanto rapida nel suo ruolo di scout, arriviamo ai bordi un torrente ormai secco. I cespugli formano una grotta d’ombra ed è qui che hanno recuperato il corpo di Mayra Pacheco, 21 anni, deceduta tra le braccia della mamma. Era il 18 aprile del 2004.
Girovagando sotto un sole che spacca, i Samaritani fan- no ricognizione. Sono come esploratori del Vecchio West. Leggono il terreno, scrutano i viottoli, cercano tracce del passaggio degli immigrati. Informazioni da incrociare con quelle raccolte su altri punti del confine per stabilire i flussi. Troviamo una carta di identità, molti zaini, un flacone di profumo, un paio di jeans, coperte.
Tutti portano i segni del tempo. Roba vecchia. Specchio di quello che raccontano i report della polizia: il numero dei migranti è in netto calo, resta alto quello dei contrabbandieri di droga, a loro agio in una parte d’America rimasta, in certi punti, come quella dei pionieri.
Se ci sono meno bisognosi da assistere, non mancano però quelli da onorare. E allora ci spostiamo ancora, sempre in parallelo al muro che divide gli Usa dal Messico. Una collina sassosa, un nuovo canalone e raggiungiamo il Canyon Pesquera: altre ossa di ignoto. L’archivio del movimento riporta la data dell’individuazione, giugno 2014. Antie, Shura, Ron e le altre ripetono l’operazione di scavo.
Al pianta la croce, la osserva, scatta una foto come documento e poi pronuncia una frase che è come una preghiera: «Spero che tenga compagnia al suo spirito».