la Repubblica, 29 maggio 2015
Perché il Dalai Lama e il premio Nobel Aung San Suu Kyi si sono messi a litigare? Per il leader spirituale dei buddisti è giunta l’ora di rompere il lungo e imbarazzante silenzio sulle persecuzioni e odissee degli islamici Rohingya in Birmania
La leader dell’opposizione birmana Aung San Suu Kyi non si aspettava certo di venire criticata pubblicamente da un altro premio Nobel per la Pace, per di più buddista come lei. Ma il Dalai lama non si è fatto condizionare dalle etichette di bon ton tra i “laureati” di Stoccolma, per dirle che è giunta l’ora di rompere il suo lungo e imbarazzante silenzio sulle persecuzioni e odissee degli islamici Rohingya in Birmania. Dopo di lui, anche altri Nobel hanno sollevato lo stesso caso – «niente di meno che un genocidio» è stato il loro commento – contro un popolo oggi costretto a rischiare la vita a bordo di barche in balìa dell’oceano per sfuggire a violenze e abusi. Al termine di tre giorni di discussione e proiezioni di video nella città norvegese, personalità come l’ex vescovo sudafricano Desmond Tutu, l’iraniana Shirin Ibadi e l’ex presidente di Timor Est Jose Ramos Horta, hanno rivolto un appello alla comunità internazionale per aiuti concreti ai Rohingya soprattutto nello Stato dell’Arakan, epicentro di una crisi umanitaria senza precedenti. In un’intervista al quotidiano The Australian, il leader spirituale tibetano, dopo aver definito la loro sorte «molto triste», si è però rivolto direttamente all’eroina dei diritti umani in Birmania. «Spero che Aung San Suu Kyi intervenga in quanto Nobel», ha dichiarato, ricordando di averla «incontrata due volte, prima a Londra e poi nella Repubblica Ceca». «Ho parlato con lei di questo problema – è stata la sua testimonianza – e mi ha detto di aver trovato alcune difficoltà, che le cose non erano semplici ma molto complicate. Nonostante ciò, sento che lei può fare qualcosa». Non è la prima volta che il monaco-esule tibetano parla di questo popolo divenuto il simbolo delle violazioni dei diritti umani nello stato nordorientale dell’Arakan, dove risiede gran parte del milione e mezzo di Rohingya senza terra né cittadinanza, un sesto dell’intera popolazione islamica in Birmania. Ma se nelle precedenti occasioni aveva accusato direttamente il comportamento poco buddista di religiosi come il monaco Wirathu, che fomentavano l’odio etnico, le uccisioni e la reclusione nei ghetti di almeno 150mila Rohingya, il riferimento ad ad Aung San Suu Kyi accredita i dubbi di quanti la sospettano di aver taciuto per opportunismo politico, nel timore di alienarsi molti elettori alla vigilia del voto presidenziale di novembre dal quale rischia, peraltro, di essere esclusa. La critica si estende inevitabilmente al governo birmano, che ha perfino occultato questa consistente etnia dai dati del censimento. «Non è sufficiente chiedersi come aiutare i Rohingya», ha detto il Dalai lama. «C’è qualcosa di sbagliato nel modo di pensare dell’umanità... manca la preoccupazione per la vita degli altri, per il benessere degli altri».