Corriere della Sera, 27 maggio 2015
A proposito della scomparsa di William Pfaff, storico commentatore di politica internazionale sulla stampa americana. Il ricordo di Sergio Romano: «L’ho conosciuto a Parigi negli anni Settanta e mi sembrò subito un “expatriate”. Ha preferito guardare l’America da lontano con uno sguardo ora distaccato, ora esplicitamente severo»
Ho visto che è scomparso nelle scorse settimane a Parigi William Pfaff, commentatore di politica internazionale sulla stampa americana per quattro decenni. Era persona dotta, fine, e critica della politica degli Stati Uniti. Smentiva molti dei pregiudizi europei nei confronti degli americani. Immagino che lei lo abbia conosciuto.
Piero Heinze
Bruxelles
Caro Heinze,
Ho conosciuto Pfaff a Parigi negli anni Settanta (vi era arrivato nel 1971) e mi sembrò subito un «expatriate». La parola significa letteralmente «persona che vive al di fuori della propria patria o che ne è stato cacciato». Ma nell’uso americano descrive l’intellettuale che sceglie di condurre una grande parte della propria esistenza lontano dagli Stati Uniti. A parte qualche eccezione, come quella di T. S. Eliot, non rinuncia alla cittadinanza americana e apprende spesso sommariamente la lingua del Paese in cui ha deciso di fissare la propria residenza. Ma preferisce guardare l’America da lontano con uno sguardo ora distaccato, ora esplicitamente severo. Molti «expatriates», negli anni Venti e Trenta, incarnavano, come Hemingway, la figura moderna del «bohémien», e se vivevano a Parigi frequentavano il salotto di Gertrude Stein e Alice B. Toklas. Altri, come Bernard Berenson a Firenze, Ezra Pound a Rapallo, Peggy Guggenheim a Venezia e Mary McCarthy a Parigi, preferivano allontanarsi (in alcuni casi almeno per qualche mese) da una patria di cui non riuscivano ad accettare interamente i costumi. I loro connazionali, anche quando li ammiravano, non riuscivano a nascondere un certo disappunto per questi americani anomali, tropo inclini a criticare la loro patria.
William Pfaff non apparteneva alla categoria dei «bohémien» e non era un artista. Era nato nello Iowa (uno Stato del Middle West), aveva avuto una educazione cristiana e si era laureato nell’Università di Notre Dame, fondata nel 1842 da un sacerdote francese appartenente alla Congregazione della Santa Croce. Non so quali rapporti avesse mantenuto con la Chiesa, ma ho spesso avuto l’impressione, leggendo i suoi articoli e i suoi libri, che giudicasse gli eventi internazionali con una combinazione di realismo politico e rigore religioso.
Il tema ricorrente dei suoi commenti giornalistici era la politica estera dell’America. Credeva che l’ideologia del «Destino manifesto», con cui alcuni presidenti americani avevano giustificato la conquista del West nella seconda metà dell’Ottocento e la guerra contro la Spagna alla fine del secolo, fosse all’origini di molte decisioni prese dai governi americani negli anni successivi. L’ingresso degli Stati Uniti nella Grande guerra fu giustificato con i «14 punti», la lezione politica che il quacchero Wilson (come lo chiamò D’Annunzio) impartiva ai peccatori europei per organizzare la società internazionale dopo il conflitto. L’ingresso nella Seconda guerra mondiale fu provocato, tecnicamente, dai giapponesi e lo scoppio della Guerra fredda fu dovuto in buona parte alla politica staliniana. Ma gli Stati Uniti, da quel momento, non hanno mai smesso di giustificare le loro guerre come una sorta di dovere morale per combattere il Male e diffondere la democrazia nel pianeta. A Pfaff, invece, non piacquero né la guerra in Vietnam, né gli interventi in Jugoslavia, Iraq, Afghanistan. Il suo ultimo libro, pubblicato nel 2010, s’intitola The irony of manifest destiny: the tragedy of America’s foreign policy (l’ironia del destino manifesto e la tragedia della politica estera americana). Meriterebbe una traduzione italiana.