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 2015  maggio 25 Lunedì calendario

Trent’anni fa l’Heysel, il massacro che assassinò il calcio. Il caldo, la birra, gli hooligans e i 39 morti. E poi gli inglesi avviarono riforme concrete e gli stadi sono diventati sicuri

Corriere della Sera

«Le football assassiné». Il titolo migliore, il 30 maggio, lo fa l’Équipe. Juventus-Liverpool, finale di Coppa dei Campioni, 29 maggio 1985, la tragedia che cambia il calcio europeo, arriva improvvisa come un animale feroce che attacca, le fauci spalancate. Così, a uomini, donne e bambini del settore Z, devono apparire gli hooligan del Liverpool, a cui sono mischiati i famigerati «headhunters», cacciatori di teste del Chelsea. Alle 19.08 lo stadio maledetto, l’Heysel di Bruxelles, ora Re Baldovino, inghiotte 39 vite. Raccontarlo, a trent’anni di distanza, ha ancora senso non tanto per ricordare, quanto per ragionare. Ad esempio sulla contraddizione tra chiedere rispetto per i morti e insultare i vivi. La strage ha molti padri. «Sono la stupidità umana degli hooligan e gli errori organizzativi e tattici a provocare la “catastrofe”» racconta Roland Vanreusel, allora commissario aggiunto incaricato per l’ordine pubblico. Già alla vigilia appare chiaro che lo stadio è fatiscente e la disorganizzazione sovrana. Non ci sono i cartelli precisi e colorati che i tifosi troveranno a Berlino. I belgi e l’Uefa, prima degli inglesi ebbri, preparano il disastro. L’Heysel è inadatto. Ai tifosi bianconeri vengono venduti i biglietti del settore Z, agli inglesi quelli adiacenti X e Y. Il confine? Reti posticce e pochi gendarmi. I biglietti sono uguali, su quelli degli inglesi c’è una segno sopra la Z. Su quelli degli italiani, la cancellatura è su XY. 
Fa caldo, la birra (quella belga è buona, niente da dire) è un fiume in piena nel sangue delle bestie venite dalle sponde povere e depresse della Mersey. Accoltellati un anno prima dai tifosi (?) giallorossi a Roma, meditano vendetta. Attaccano, i cocci di bottiglia come armi, le facce stravolte. Le retine vengono travolte, i gendarmi spariscono salvo manifestarsi a bordo campo, a manganellare gli juventini che cercano di scappare verso il prato. Il resto è noto. I tifosi inglesi non ammazzano, direttamente, nessuno: 39 persone finiscono schiacciate da altre persone e dal crollo di un muro. I sopravvissuti si presentano, anche con i vestiti insanguinati, in tribuna stampa chiedendo di telefonare per rassicurare i parenti. 
Finita la strage comincia il circo dello scaricabarile. Alla fine non paga nessuno, certo non con pene adeguate alla gravità di quanto accaduto. A battersi, ostinato ma mai aggressivo, resta un uomo solo, Otello Lorentini di Arezzo. Otello ha perso un figlio, Roberto, nel massacro. Medico, è in salvo ma tornato indietro per soccorrere i feriti. Otello è solo, in aula, nel 1990 quando la corte condanna l’Uefa. Siamo a ridosso delle «notti magiche» del Mondiale ’90. Cinque anni e la strage è già un peso. Show must go on. Le squadre inglesi, cacciate dalle coppe, sono già tornate, il Liverpool lo farà nella stagione 1991-1992 e la prima italiana ad affrontarlo sarà il Genoa. Quel giorno, a Bruxelles, si stabilisce un precedente. L’Uefa è responsabile per tutte le manifestazioni che organizza. Non per l’Heysel, ma per i soldi, nasce la Champions League portando controlli, sicurezza, organizzazione, obblighi. Il calcio europeo impara dai propri errori. Gli inglesi avviano riforme concrete che diventano incisive dopo Hillsborough, 15 aprile 1989, 96 morti, ancora il Liverpool di mezzo. È la semifinale di FA Cup con il Nottingham Forrest. Anche qui vittime schiacciate da quelli che spingono cercando di entrare senza biglietto. Gli hooligan spariscono. Si manifestano ancora in Europa, gli ultimi danni a Charleroi, a Euro 2000. L’Inghilterra, avvisata, interviene nuovamente. Secondo la controinformazione dei nostri ultrà non è vero che gli hooligan non esistano più. Sarà, ma negli stadi non ci sono. Gli unici a a non cambiare siamo noi. Dall’Heysel in poi abbiamo avuto tragedie, morti, e leggi speciali, ma restiamo sull’orlo dell’abisso. Nel 2014, nei giorni della finale di Coppa Italia, Napoli-Fiorentina, con l’ultima vittima «calcistica», Ciro Esposito, a 89 anni se ne va Otello Lorentini. Suo nipote Andrea, 3 anni nel 1985, qualche anno prima aveva detto: «Allora noi eravamo le vittime e forse non ci siamo sentiti in dovere di cambiare». Quando la Juventus torna a incrociare il Liverpool, nel 2005, a Torino un piccolo esercito circonda i tifosi dei Reds. Non perché tema qualcosa da loro, ma per proteggerli. Trent’anni dopo gli hooligan siamo noi. 
Roberto Perrone

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La Repubblica

La ragazzina aveva piccole labbra rosse di sugo, come se avesse mangiato marmellata di fragole e poi si fosse addormentata. Il cielo era invece di un rosso più tenue, soffuso e morbido, voleva prendersi tutta l’aria. I tifosi del Liverpool erano vestiti di un rosso elettrico molto vivo, e sembravano assai più numerosi degli italiani, forse dipendeva proprio dal colore dominante. I muri di pietra della città avevano, infine, un tono rossastro di sangue raggrumato, e i mattoni parevano croste. C’era, già dal mattino, qualcosa di strano, una specie di minaccia impossibile da chiamare per nome.
Trent’anni sono un tempo definito, esatto. I figli riescono a trovare un lavoro e magari sposarsi, un mutuo si estingue finalmente, e una carriera lavorativa si completa oppure si conclude. La memoria, lei fa sempre quello che vuole, aprendo cassetti dove tutto è in disordine ma anche nitido: oggi, adesso è di nuovo quel giorno.
La città era lurida, la percorrevano ruscelletti di birra e piscio. Alle dieci di mattina, la Grand Place era piena di vetri spezzati. Gruppi di inglesi ubriachi ronfavano nel mezzogiorno, distesi sul selciato, le teste appoggiate a cartoni di bottiglie usate come cuscini. A un certo punto, da una finestra d’improvviso spalancata volò un oggetto di cristallo, una specie di centrotavola scagliato per disperazione contro la marea urlante degli hooligans, ed esplose come una bomba. Si rischiava di ferirsi anche solo passeggiando, nell’attesa della partita. Ed era un giorno tiepido, dolcissimo.
Arrivammo allo stadio Heysel su un autobus con sopra scritto “Italian press”, non proprio un’ideona: un gruppo di rossi feroci si accostò ululando, e quando scendemmo ci vomitarono addosso gli aliti alcolici. Era dunque questa, la partita più bella del mondo?
Saranno state le sei del pomeriggio, salimmo subito in tribuna. Il tramonto era meraviglioso, proprio dietro la curva alla nostra sinistra, quella del settore Z e della tragedia. Si trattava di aspettare, è quel rito che precede i grandi eventi sportivi, l’appassionato respira tutto, ricorderà tutto, figurarsi l’inviato giovane alla prima trasferta vera. Non c’erano telefonini, si scattavano foto con gli occhi.
Poi, di colpo, verso le 19.20 la curva prese a ondeggiare come un mare impazzito, un mare assurdo nell’assenza di vento. I rossi tiravano cose da sinistra verso destra, pietre, fumogeni, e intanto si spostavano compatti. «Guarda, attaccano!», disse qualcuno. Una, due volte. Gli italiani, che erano pochi (la maggioranza stava nella curva opposta: chi era capitato lì lo aveva fatto comperando da sé i biglietti, si può morire anche per distrazione) presero a indietreggiare, però senza vie di fuga. Qualcuno trovò spazio e salvezza verso il prato, da dove però i gendarmi belgi provavano a respingere le persone con i manganelli. Finché il muretto divisorio cedette, e quasi tutti restarono sotto la massa che sfondava, corpi calpestati, schiacciati, soffocati.
Dalla tribuna si capiva e non si capiva. «Ci sono dei morti», disse una voce, e subito ci precipitammo giù dalle scale verso l’antistadio. E li vedemmo. Erano già allineati, cinque, otto, dodici corpi morti in fila e senza nessuno accanto. Corpi soli, irreparabili. Transenne di ferro venivano usate come barelle, la polizia a cavallo andava avanti e indietro, soffiando nei fischietti e roteando bastoni. C’erano infermieri, pochi, e medici, ancora meno. C’era morte dappertutto.
Trent’anni sono un tempo lunghissimo e un nonnulla, dietro le porte del cervello c’è solo mistero, chissà chi archivia le immagini lì dentro, chi sceglie, chi scarta. Malinconia per le nostre vite intatte. Nel ricordo c’è l’uomo con la pancia enorme e un altro uomo arrampicato su quella collina di carne, per tentare un massaggio cardiaco. C’è il ragazzo con la gola tagliata, è una tracheotomia: morirà entro pochi istanti. C’è un silenzio assurdo. C’è la ragazzina con la marmellata sulle labbra piccole. Porta scarpette bianche e blu.
Persone attorno, tante. Ora sale anche il rumore. La gente italiana vede i pass che penzolano al collo dei giornalisti, allunga mani, porge foglietti con numeri di telefono, per favore chiamate casa, dite a mia mamma che sono vivo. Non esistevano cellulari, computer, internet in quella preistoria dell’uomo. In tribuna stampa, noi di Tuttosport avevamo un telefono a disco di bachelite nera e sì, qualcuno di quei numeri ignoti lo componemmo ma pochi, c’era prima da lavorare, da dettare i pezzi a braccio, nessuno scrisse una riga battendo i tasti delle Olivetti, fu semmai una narrazione orale e corale, un disperato racconto nel buio, una pioggia di parole intrise di sangue. Non si poteva comprendere, c’era solo da guardare, salire e scendere scale, descrivere come meglio si poteva, cioè malissimo. Il senso di inadeguatezza, di vuoto non è mai svanito, insieme alla vergogna di prendere appun- ti. Eravamo bimbi tra i lupi.
Il resto lo sanno tutti. Gli appelli dei capitani di Juve e Liverpool, la voce del povero Scirea (è ancora viva anche lei, con quel tono di quieta timidezza, il sussurro di un uomo buono, «restate calmi, giochiamo per voi»), la partita che comincia alle 21.40 invece che alle 20.15 (allora le finali iniziavano alle otto e un quarto e c’era solo la Rai, solo la cadenza sbigottita e impotente di Bruno Pizzul). I rossi e i bianconeri, il fulvo Zibì Boniek atterrato fuori area però l’arbitro dà il rigore, tira Platini, gol, poi il francese festeggia roteando il pugno, assurdamente. L’atmosfera sospesa, irreale, e la gara non fasulla perché c’è qualcosa di diabolico e disperato nella resistenza umana. Vince la Juventus, in campo ci si abbraccia ma intanto Claudio, un collega più anziano, piange accanto al cronista ragazzino, e ripete «è finita, adesso è finita».
Saranno trentanove, i morti, in fondo a quella fine che invece ricomincia ad ora incerta, almeno una volta all’anno ricomincia nel tepore di maggio, e negli anniversari tondi come un pallone, e nel ricordo delle voci dei parenti come Otello Lorentini che li rappresentava tutti, e adesso anche lui se n’è andato. La fine ricomincia nell’imboscata di certi sogni, o nella memoria a bruciapelo di una vita intera di stadi, passione, pelle d’oca, felicità, partenze, solitudine, stanchezza, viaggi, città, parole. E sempre ritornano quelle labbra piccole, rosse, che non avranno baci, mai più.
Maurizio Crosetti