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 2015  maggio 25 Lunedì calendario

Dopo il referendum sul matrimonio gay la Chiesa irlandese fa i conti con la realtà: «Dobbiamo prendere atto di questa rivoluzione sociale». Intanto dal Vaticano, l’arcivescovo Bruno Forte spiega che non si può accettare «l’equiparazione tout-court, anche terminologica, col matrimonio», ma questo «non significa escludere la ricerca di una codificazione di diritti a persone che vivono in unioni omosessuali: è un discorso di civiltà e rispetto della dignità delle persone»

Il primo Paese al mondo a cambiare la costituzione a favore delle nozze gay con un referendum: quando l’arcivescovo di Dublino, Diarmuid Martin, parla di «rivoluzione sociale» non esagera. L’esito irlandese – i sì hanno vinto con il 62% dei voti – conferma che il Paese è proiettato verso la modernità e che il rapporto con la Chiesa cattolica è cambiato radicalmente. 
Sembra quasi impossibile, oggi, credere che l’omosessualità sia stata illegale, sulla cosiddetta isola verde, sino al 1993, o che nel referendum sul divorzio, nel 1987, la maggioranza della popolazione abbia votato no (il divorzio venne approvato nel 1995). Quanta strada in poco tempo. 
Per la Chiesa, secondo Martin, è arrivato il momento di riflettere. «Dobbiamo renderci conto di quale sia la realtà e smettere di negare l’evidenza», ha sottolineato l’arcivescovo. «Capisco perfettamente come possono sentirsi oggi uomini e donne gay o lesbiche. Noi della Chiesa dobbiamo prendere atto del fatto che la maggior parte di coloro che hanno votato sì ha trascorso 12 anni nelle nostre scuole cattoliche. La sfida adesso è capire come comunicare il nostro messaggio alla popolazione». 
Una sfida particolarmente difficile sullo sfondo del calo delle presenze in chiesa. Se negli Anni 70 il 90% della popolazione si recava a messa la domenica, il totale oggi è sceso al 32%. Secondo l’arcivescovo, a Dublino è ancora inferiore: 18%. 
La relazione tra popolazione e Chiesa ha sofferto sicuramente a causa degli scandali sulla pedofilia nonché i casi di violenza psicologica e fisica di preti e suore nelle scuole, nelle case di cura, negli ospedali, ma il cambiamento è anche frutto di una modernizzazione che ha portato l’Irlanda negli anni del «miracolo della tigre celtica» a livelli di agiatezza economica mai visti e che ha aperto il Paese ad altre influenze. 
L’Irlanda di oggi è più liberale, aperta verso altre culture e altri modi di pensare. Sono soprattutto i giovani ad aver votato sì in un referendum che ha portato alle urne più persone di quello per approvare l’accordo di pace del Venerdì Santo. Per Tom Curran, segretario generale del partito di governo Fine Gael, «è un giorno meraviglioso». È fedele, ha un figlio gay. «Siamo tornati ai valori di decenza, onestà e uguaglianza», ha detto. «Tutti i miei figli adesso hanno gli stessi diritti». 
Il referendum non va necessariamente letto come un no alla Chiesa: pur essendo contraria a una ridefinizione del matrimonio, la Chiesa, ha sottolineato l’arcivescovo, «non è chiusa per nessuno». Lui ha votato no, ma mesi fa, quando si è trattato di organizzare la campagna per il referendum, rinunciò al ruolo di coordinatore. «Non ho nessuna voglia di far ingurgitare le mie vedute agli altri», spiegò con semplicità. «Chi non mostra amore e comprensione verso gay e lesbiche insulta Dio. Dio ama tutti». 
In sordina, insomma, anche la Chiesa cambia. A gennaio, padre Martin Dolan, parroco della chiesa di St Nicholas, a Dublino, dichiarò durante la predica non solo di essere a favore della nozze gay, ma anche di essere omosessuale. Dieci anni fa non sarebbe stato possibile. Nella Dublino del 2015 i fedeli si sono alzati in piedi e gli hanno battuto le mani. 

Paola De Carolis

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Non è più il tempo delle barricate, semmai quello della riflessione. Niente panico. «La mentalità è profondamente cambiata. Ma non per questo i credenti devono lasciarsi intimidire da quelle che vengono viste come sconfitte né perdere l’entusiasmo e la gioia del Vangelo, come anche il senso dell’accoglienza e dell’amore verso tutti». L’arcivescovo teologo Bruno Forte, confermato dal Papa segretario speciale del Sinodo sulla famiglia, considera il quadro generale: «Si tratta di un processo culturale di secolarizzazione spinta nel quale l’Europa è pienamente coinvolta». E bisogna guardarlo in faccia: oggi, per dire, all’Università Gregoriana di Roma è previsto un seminario teologico a porte chiuse organizzato in tutta riservatezza dagli episcopati di Germania, Francia e Svizzera. Si parlerà dei temi più controversi in vista della seconda tappa sinodale di ottobre, sacramenti ai divorziati risposati e accoglienza degli omosessuali. Tra gli artefici della riunione c’è anche il cardinale Reinhard Marx, membro del Consiglio di nove cardinali che il Papa ha voluto accanto a sé nonché presidente della conferenza episcopale tedesca, tra le più riformiste d’Europa. 
Nelle risposte mandate a Roma per il documento preparatorio al Sinodo – proprio questa settimana in Vaticano si comincerà a fare sintesi dei testi arrivati da tutto il mondo – i vescovi tedeschi hanno scritto: «In Germania le convivenze omosessuali hanno uno status diverso da quello del matrimonio («unioni civili»). Il loro riconoscimento si basa su un largo consenso sociale che viene sostenuto anche dalla maggioranza dei cattolici». Fra l’altro, «i fedeli si aspettano che ogni persona, indipendentemente dal suo orientamento sessuale, venga accettata dalla Chiesa come dalla società e che nelle parrocchie venga creato un clima di stima nei confronti di ognuno». 
La questione sta diventano più che mai urgente per la Chiesa in Italia, uno dei pochi Paesi europei a non avere leggi in materia. All’assemblea della Cei, la scorsa settimana, Francesco ha chiesto di «uscire verso il popolo di Dio per difenderlo dalle colonizzazioni ideologiche che gli tolgono l’identità e la dignità umana». Ma ha distinto i ruoli, si tratta di lasciare ai fedeli laici le «responsabilità che a loro competono», il tempo degli interventi diretti è finito: «I laici che hanno una formazione cristiana autentica, non dovrebbero aver bisogno del vescovo-pilota, o del monsignore-pilota o di un input clericale per assumersi le proprie responsabilità a tutti i livelli, da quello politico a quello sociale, da quello economico a quello legislativo. Hanno invece tutti la necessità del vescovo pastore». 
Oltre allo stile, sta cambiando anche la linea tracciata nella Cei, ai tempi della battaglia contro i Dico, dall’allora presidente Camillo Ruini: bastano i diritti individuali, no alle unioni civili, nessun riconoscimento alle coppie omosessuali. Certo l’anima più «agonistica» resta presente, tra i vescovi italiani. Ma ci sono stati segnali differenti. Proprio Bruno Forte, al Sinodo scorso, spiegava che la Chiesa non può accettare «l’equiparazione tout-court, anche terminologica, col matrimonio», ma questo «non significa escludere la ricerca di una codificazione di diritti a persone che vivono in unioni omosessuali: è un discorso di civiltà e rispetto della dignità delle persone». 
Il problema, nel caso, è come arrivarci. Non si può accettare che la «famiglia costituzionale, con padre madre e figli» finisca «in un angolo», diceva al Corriere il vescovo Nunzio Galantino, segretario generale della Cei. Nessuna «equiparazione», nessun «cavallo di Troia». Questa è la premessa: «Cominciamo a dire che cosa è la famiglia, cosa appartiene a una realtà e cosa a un’altra, poi faremo altri discorsi». Confrontarsi senza scontri ideologici, il «metodo sinodale» evocato da Galantino. 
E distinguere. «Invitiamo l’Europa a riflettere con serietà: cosa si sta facendo per una politica familiare adeguata? Io non la vedo, basta pensare al gelo demografico», ha detto ieri il cardinale di Milano Angelo Scola: «Manca in Europa un dibattito serio su cosa siano i diritti oggi. Nessuno vuol togliere i diritti a nessuno, il problema è intendersi sulla differenza tra i vari diritti».
Gian Guido Vecchi