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 2015  maggio 20 Mercoledì calendario

Così la tv, con i suoi soldi, ha cambiato per sempre il calcio. Dal Mundialito comprato da Berlusconi nell’81 all’orgia di partite in diretta di oggi. Conta solo venderle, come spiegava bene Lotito: «Se ci abbiamo Latina, Carpi, Frosinone, chi li compra i diritti? Se mi porti squadre che non valgono un cazzo, tra due o tre anni non ci abbiamo più una lira»

 L’evoluzione narrativa e la rivoluzione economica imposte al calcio dalle tivù a pagamento sono mirabilmente sintetizzate da Claudio Lotito, presidente laziale, abile imprenditore, raffinato umanista e apprezzato latinista, quando nell’ormai famosa telefonata registrata egli dice: «Se ci abbiamo Latina, Carpi, Frosinone, chi li compra i diritti? Se mi porti squadre che non valgono un cazzo, tra due o tre anni non ci abbiamo più una lira».
Che poi Carpi e Frosinone siano davvero salite in A dimostra che la vita ha spesso più fantasia degli uomini, e comunque adesso quei diritti televisivi bisogna pur venderli, e farli valere. Come, lo decideranno Sky e Mediaset Premium, e molto in seconda battuta la vecchia Rai. Anche se è proprio da lei e dal suo paleolitico televisivo che bisogna partire, per capire. Anzi, dall’intuizione di Carlo Balilla Bacarelli, padre di tutti i telecronisti, il quale nel pomeriggio del 5 febbraio 1950 commentò la prima partita di calcio trasmessa in diretta in Italia, ovvero Juventus-Milan 1-7, anche se solo per la zona di Torino e dintorni: troppo debole il segnale emesso dall’unico trasmettitore dell’Eremo, e le telecamere vennero portate dalle gru dei vigili del fuoco. «C’era una gran nebbia, vedevo solo figure vaghe e mi aiutò il monitor. Compresi che l’occhio elettronico è assai più sensibile di quello umano». Da allora e per sempre, Carlo Balilla aggiunse un accento a una congiunzione e nulla fu più come prima. Non “la televisione e il calcio” ma “la televisione èil calcio”.
Da allora, ogni meccanismo è stato smontato e ricomposto, il linguaggio e il mercato specialmente. Ma è l’avvento della pay per view a segnare l’antropologia del pallone. Se fino al 1981 (anno in cui Berlusconi portò il Mundialito su Canale 5) neppure esistevano i diritti tv (quell’anno venne siglato il primo contratto tra Lega Calcio e Rai, per 3 miliardi di lire), oggi la palla nello schermo vale mille milioni di euro per il campionato e 700 per la Champions League. Senza il denaro di Sky e Mediaset, il calcio italiano semplicemente non esisterebbe, non così, e mai più esisterà altrimenti che così.
Da quando c’è Sky Italia (31 luglio 2003, satellite) e da quando è nata Mediaset Premium (20 gennaio 2005, digitale terrestre), il calcio è diventato un palinsesto, uno spettacolo pop, un varietà tecnologico, un racconto su più piani narrativi dal trash all’epico. Si gioca, cioè si guarda, tutti i giorni. Attorno e dentro le dirette e le cronache, approfondimenti e retroscena, veline e showman, opinionisti e clown. La partita è sezionata, scannerizzata, replicata in ogni posizione, in una sorta di kamasutra visivo che alimenta se stesso.
Da quando esiste Sky, solo tre squadre hanno vinto lo scudetto: Juventus, Milan e Inter. E neppure la revisione dei criteri di mutualità o l’eventuale riforma dei campionati (assomiglia a quella della scuola, sempre promessa e mai realizzata) daranno la possibilità agli alternativi di diventare campioni d’Italia come accadde al Verona nell’85 e alla Sampdoria nel ’91, quando l’IperCalcio delle tv ancora non esisteva, Elkjaer e Vialli invece sì.
La dinamica degli ascolti, dei bacini d’utenza e dello share ha prodotto l’estrema mutazione genetica del pubblico: non più e non solo tifosi ma clienti. Gli stadi si sono svuotati e rimpiccioliti, bastano e avanzano arene da 40 mila posti, tanto la platea pagante sta in salotto. L’abbonamento a Sky costa circa 34 euro al mese (4,7 milioni di italiani lo hanno scelto), quello a Mediaset Premium 26 euro (più o meno per 1,7 milioni di abbonati) e pensiamo che neppure uno di loro rimpianga i bei tempi di un’unica partita trasmessa in differita la domenica sera in bianco e nero (e soltanto 45’), oppure le radiocronache a transistor che cominciavano dopo l’intervallo. C’era più poesia, ma oggi ci si diverte il triplo, anche se Novantesimo Minuto resta un’insuperata forma teatrale.
Poi, certo, bisogna fare i conti con i conti di Lotito, con lo strapotere (quasi un regime, ormai) che la bizzarra classe dirigente capace di impossessarsi di Figc e Lega esercita quasi senza opposizione, spostando in assenza di logica cifre, partite e persone, come ha appena dimostrato l’atto di forza del presidente laziale per il derby romano, lunedì pomeriggio: senza alcuna ragione che non fosse la propria. Concetti vetusti e astratti come contemporaneità, pari condizioni e uguali diritti sono caduti per sempre, mentre s’ode sempre più forte il refrain di una sigla, s’avanza la gamba lunga della conduttrice e la partita comincia ben prima che l’arbitro fischi. Il calcio un po’ sfinisce, ma non finisce mai. E se vi sembra di perdervi dentro una strana nebbia, fate come Carlo Balilla: fissate il monitor, lì dentro c’è tutto.