il Fatto Quotidiano, 18 maggio 2015
La morte magica di Ernesto de Martino, cinquant’anni fa. Eppure in pochi ricordano il padre dell’antropologia italiana. Amalia Signorelli: «Non è stato un filosofo puro e non è stato uno storico puro, né fu uno psicologo puro: si inventò storico-etnografo itinerante nel Mezzogiorno d’Italia a capo di inedite équipes multidisciplinari»
Ernesto de Martino morì il sei maggio del 1965, mezzo secolo fa, e mercoledì si parlerà di lui in un convegno a Parigi, dove è previsto pure un confronto tra la sua figura e quella di Antonio Gramsci. Croce, Gramsci, de Martino: sono alcuni dei giganti italiani del pensiero del secolo scorso, ma de Martino non ha la fama e la popolarità degli altri due. Per il cinquantesimo anniversario della sua morte, tra le poche a ricordarsi del padre dell’antropologia del nostro Paese (e non solo) è stata una sua antica allieva, a sua volta diventata una prestigiosa studiosa: Amalia Signorelli.
In un libro presentato ieri al salone di Torino, Signorelli ha ordinato l’enorme complessità dell’opera di de Martino e scrive: “Non è stato un filosofo puro e non è stato uno storico puro, né fu uno psicologo puro: si inventò storico-etnografo itinerante nel Mezzogiorno d’Italia a capo di inedite équipes multidisciplinari. Fu il modo di studioso di andare oltre la datità della sua situazione. E di consentire a molti di noi di farlo a nostra volta”. Andare oltre la situazione data è uno dei pilastri della ricerca demartiniana, che corrisponde all’ethos del trascendimento, “un’etica laica, fondata sul dovere – che ci distingue e ci fa umani – di impegnarci costantemente in un’opera di valorizzazione del mondo di cui siamo parte”.
E già questa definizione di Signorelli dà l’idea di quanto manchi oggi, all’Italia, un pensatore come Ernesto de Martino.
Il premio Viareggio nel 1958
Socialista, poi comunista (anche con incarichi di partito), de Martino deve molto allo storicismo di Benedetto Croce, che frequentò tra Bari e Napoli. Da morto, e in anni recentissimi, l’antropologo è rimasto prigioniero del suo libro più conosciuto, La terra del rimorso, dedicato all’ormai noto fenomeno del tarantismo pugliese. Anche Signorelli, nel 1959, partecipò alla spedizione di de Martino nel Salento. Ma il volume con cui lo studioso napoletano vinse il premio Viareggio nel 1958 è Morte e pianto rituale nel mondo antico, dove “la ricerca sul campo” porta de Martino in Lucania. Nell’introduzione all’edizione del 2008 di Bollati Boringhieri, curata da Clara Gallini, viene rievocata la serata del premio, che risale al 30 agosto del 1958: “Nell’atrio del Royal, belle donne cotonatissime sfoggiano smaglianti sorrisi, Leonida Repaci un camiciotto bianco bordato al collo, stile etnico, un po’ alla caprese ma da mugico (…). Che la scena, questa scena, dia spazio a un discorso aperto sulla morte seppure altrui, di quelli del profondo Sud, provoca sconcerto, innesca gesti apotropaici, toccamenti segreti o palesi. Si avverte che un tabù è stato infranto e che l’indicibile sta trovando parola”.
I contadini lucani
La morte non è solo tabù, ma anche scandalo. Ed è così che Signorelli descrive il suo primo incontro con de Martino. Lei studentessa, lui libero docente che tiene un corso di Etnologia alla Facoltà di Lettere dell’Università di Roma: “Aveva contenuti precisi, lo scandalo. Era per esempio una contadina lucana di 20 anni che dichiarava. ‘Si te more ’nu piccino, te more ’nu purcino, si te more lu marito, chill’è ’u trave da ’a casa’ (Se ti muore un bambino piccolo è come se ti morisse un pulcino, cioè è una perdita di poco conto, se ti muore il marito, lui è come la trave principale che regge il tetto che copre tutta la casa). E noi studentesse, con la nostra pruderie di ragazzine della ‘Roma bene’, sconvolte non si sa se più dal sentir dichiarare con tanta franchezza la gerarchia economica delle morti familiari, o dallo scoprire che le contadine analfabete della provincia di Matera sapevano parlare in poesia”. È nel 1952, a Tricarico, in provincia di Matera, che de Martino, fino ad allora storico delle religioni, ha l’intuizione, come la chiama Gallini, dell’etnografia, cioè della raccolta dei dati sul campo. Tricarico è il paese di Rocco Scotellaro, il sindaco-poeta socialista che scrisse L’uva puttanella. De Martino venne accusato di “populismo” dai suoi compagni socialisti perché nell’incontro coi contadini lucani, rifiutando “il folklorismo classificatorio applicato alle plebi rustiche”, non riconobbe ai braccianti un ruolo di guida nella rivoluzione a venire. Anzi. Annota Signorelli: “Per de Martino esse rappresentano (le plebi, ndr) un ‘problema storico’ al pari del mondo magico: più precisamente le plebi sono protagoniste del ‘dramma storico’ proprio dei gruppi umani che ‘stanno nella storia come se non ci stessero’”. Ecco, quello “stare nella storia come se non ci stessero fu un altro scandalo”, filosofico (perché si staccava dallo storicismo ortodosso) e politico.
Il silenzio dei colleghi
Lo scandalo della morte è solo uno dei molteplici aspetti della costruzione demartiniana. L’antropologo fu un eclettico geniale, un eterodosso sia nell’elaborazione, sia nella ricerca sul campo. Il metodo della spedizione contemplava un musicologo, un fotografo, un documentarista, uno psichiatra, uno psicologo nonché la sua inseparabile compagna, Vittoria de Palma. Con lo studio delle civiltà contadine del Sud portò in un ambito accademico la materia delle pratiche magico-religiose. E forse anche per questo i suoi lavori vennero accolti dal silenzio dei suoi colleghi, propedutico forse all’oblio di questo cinquantesimo anniversario della morte. Quando vinse il Viareggio rimediò all’ultimo momento un abito da cerimonia. Era indifferente all’apparire, annota Gallini nell’introduzione citata a Morte e pianto rituale. Il contrario dei tempi che viviamo. Ernesto de Martino è morto troppo presto, a 57 anni.