il Fatto Quotidiano, 18 maggio 2015
Quei killer usciti troppo presto dal carcere. Vendetta o rieducazione. La sottile linea tra punizione e recupero è sempre tirata in ballo dalla politica: ma errori ce ne sono stati. E a spese di vittime innocenti
Piango di continuo, ripensando a ciò che ho provato. Quell’uomo dovrebbe rimanere in carcere a vita per non nuocere più”. Sono frasi attribuite dai giornali alla tassista violentata a Roma dieci giorni fa. Leggi, e pensi quello che hai pensato cento volte di fronte al dolore e alla rabbia delle vittime: sì, ma.
Sì, è comprensibile, ma la Costituzione italiana dice che “le pene devono tendere alla rieducazione del condannato”. Sì, ma esistono gli errori giudiziari. Sì, ma bisogna dar retta alla ragione, non all’istinto che urla: mettetelo dentro, e buttate via le chiavi. Sì, ma il carcere è criminogeno. Sì, ma la giustizia è una cosa, la vendetta un’altra. Sì, ma noi persone colte e civili non possiamo confonderci con le folle feroci, bava alla bocca e mani che prudono per la voglia di linciaggio.
Eppure, a riguardare le cronache divenute storia, ci sono casi in cui buttar via le chiavi sarebbe stato probabilmente meglio per tutti, compresi gli stessi colpevoli. Avrebbe risparmiato vite umane, ciascuna preziosa, ciascuna insostituibile. Avrebbe evitato a decine di famiglie, anche quelle degli assassini, il peso insopportabile dell’angoscia. Avrebbe dato la possibilità a chi ha ucciso di fare i conti con il peggio di sé.
Prendiamo Angelo Izzo, uno dei tre pariolini fascisti che nel settembre del 1975 violentarono e torturarono per più di un giorno Donatella Colasanti e Rosaria Lopez, poi se ne andarono a cena credendole morte entrambe. Aveva vent’anni, Izzo, ma era già stato condannato per stupro. Solo che al posto dei due anni e mezzo della sentenza, aveva scontato appena qualche mese.
Per il massacro del Circeo fu condannato all’ergastolo, come i suoi due compari. Ma già in appello gli furono elargite le attenuanti generiche, riducendo così la pena a trent’anni. Provò a evadere almeno tre volte, una volta prendendo anche in ostaggio un maresciallo delle guardie carcerarie. Eppure nel dicembre 2004 gli fu concessa la semilibertà. “È una persona non pericolosa per la società. Ha bisogno di relazioni umane che potrebbero orientarlo a costruirsi un’immagine di sé riscattante e valorizzante e di impegno verso la biofilia. Una persona ben dotata intellettualmente che punta a un rinnovamento di se stesso”, scrissero i magistrati. Neppure cinque mesi dopo, Angelo Izzo uccideva, soffocandole, una donna di 48 anni e una ragazzina di quattordici.
Oppure, ricordiamoci di Maurizio Minghella; dei suoi occhi persi nel vuoto, delle sue mani enormi. Nel corso del 1978, nei dintorni di Genova, uccise cinque donne. Le rimorchiava su utilitarie rubate, le portava in qualche forra isolata e le ammazzava a pietrate, o strangolandole. Era l’anno del sequestro di Aldo Moro. Così l’assassino ebbe la brillante idea di sviare le indagini scrivendo sul corpo di una delle vittime Brigate Rose, con una esse sola.
Gli diedero l’ergastolo, nel 1981. Ma gli bastarono quindici anni di buona condotta a Porto Azzurro per ottenere la semilibertà, a Torino. Cinque ore al giorno dal lunedì al venerdì per lavorare in una delle cooperative del Gruppo Abele, quindici senza vincoli il sabato e la domenica. Da quel momento le prostitute del capoluogo piemontese cominciarono a essere seviziate e ammazzate con allarmante frequenza. Dieci cadaveri in cinque anni, fino al marzo del 2001, quando la strage si concluse e Minghella aggiunse altri ergastoli alla sua collezione.
Da quegli anni di cronache remote spuntano il nome, e la vita dimenticata, di Italo Meotti. A Ferrara, nel 1984, aveva ucciso la giovane moglie; nei primi due gradi di giudizio era stato condannato a 18 anni. Tre anni dopo, quando stavano per scadere i termini della carcerazione preventiva, furono i suoi stessi genitori a intuire che fuori dalle sbarre poteva essere ancora pericoloso: gli scrissero in carcere, implorandolo di ritirare il ricorso in Cassazione.
Meotti rifiutò, uscì, s’innamorò di Gloria Polmonari, una ragazza di 26 anni. Quando le confessò il suo passato, Gloria chiuse la relazione; più tardi si mise con un altro. A colpi di 38, Meotti uccise la ragazza e conciò in fin di vita il nuovo fidanzato. “Ho sparato proprio per uccidere”, disse calmo agli agenti che l’arrestavano. I suoi fantasmi, però, non intendevano lasciarlo tranquillo. In carcere era sorvegliato a vista; ma cinque mesi dopo, una notte, chiese al secondino di allontanarsi un attimo, perché sotto i suoi occhi non riusciva ad andare di corpo. L’agente si spostò di venti metri, tornando subito indietro. Pochi secondi, sufficienti a Meotti per uccidere ancora; sé stesso, questa volta. S’impiccò con un cordino all’inferriata della finestra.
La stessa pena che volle infliggersi Emiliano Santangelo, nel febbraio del 2006, in una cella del carcere di Biella, in Piemonte. Aveva 33 anni, spesi in buona parte a perseguitare una ragazza, Deborah Rizzato. L’aveva violentata quando era ancora una bambina, poco più di dieci anni. Lei aveva trovato il coraggio di denunciarlo; lui era andato in galera promettendo vendette. Uscito dopo tre anni, non le aveva dato tregua. Le nuove denunce della ragazza non erano servite a nulla. Una mattina di novembre Santangelo l’aspettò nel parcheggio dell’azienda in cui lavorava, tamponò la sua macchina per bloccarla e la uccise con sette coltellate. Deborah aveva 23 anni.
Sono passati solo pochi mesi dalla morte a Firenze di Irene Focardi. Bella donna, ex modella, aveva 43 anni e qualche problema con l’alcol quando è scomparsa, all’inizio dello scorso febbraio. Quel che restava di lei è stato ritrovato a fine marzo, in un sacco buttato in un fosso lungo la ferrovia. Per l’omicidio è stato arrestato l’ex compagno, Davide Di Martino. Uno che resta innocente fino all’ultimo grado di giudizio; ma non certo una persona raccomandabile.
Era stato già condannato a tre anni e nove mesi, proprio per aver picchiato più volte, crudelmente, Irene. Nel marzo 2014, interpellata sull’opportunità di scarcerare Di Martino, la PM Ornella Galeotti si era opposta con estrema decisione: «L’indagato presenta inequivocabili sintomi di pervicacia a delinquere. È assai probabile la reiterazione, in stato di libertà, di ulteriori comportamenti delittuosi». I colleghi giudicanti non le avevano dato retta: «Le esigenze cautelari sembrano poter essere salvaguardate anche con gli arresti domiciliari». Ad agosto, Di Martino era stato messo fuori.
E aveva subito provveduto a dar ragione al pubblico ministero, evadendo spesso dagli arresti domiciliari soprattutto allo scopo di gonfiare di botte la sua compagna. È successo il 7 settembre, il 12 novembre, il 13 dicembre. Pestaggi veri, ogni volta: ciascuno dei certificati medici riporta prognosi da trenta giorni. La magistratura non aveva fatto una piega. Fino al ritrovamento di quel cadavere nel sacco.
Una vicenda ancora più controversa è quella del genovese Luca Delfino. Era fidanzato con Luciana Biggi quando la ragazza fu uccisa con un coccio di vetro in uno dei vicoli del centro storico, nell’aprile del 2006. Fu subito sospettato, ma il procuratore capo Francesco Lalla e il sostituto Enrico Zucca stabilirono che non c’erano indizi sufficienti per arrestarlo. L’anno successivo si mise con una commessa, Maria Antonietta Multari. Dopo appena quattro mesi lei lo lasciò, e lo denunciò per aggressione; ai carabinieri raccontò anche di minacce ai suoi genitori. Il 10 agosto 2007, a Sanremo, Luca Delfino uccise Maria Antonietta Multari con quaranta coltellate. Al funerale, tre striscioni contro la magistratura sul sagrato della chiesa. Il padre della vittima diede a Zucca dell’“assassino”.
Soprattutto, su Zucca calò un bombardamento di polemiche di rara ferocia da parte della polizia e dello schieramento politico di centrodestra. Il motivo era ovvio: il pubblico ministero genovese che sosteneva l’accusa in quel procedimento è un magistrato preparato e tenacissimo. Sue, fra l’altro, le indagini sul più noto dei serial killer italiani, Donato Bilancia, 17 vittime in sei mesi. E in quegli anni le sue capacità erano concentrate nei processi sui sanguinosi abusi della polizia durante il G8 genovese del 2001, in particolare nella scuola Diaz; conclusi poi con la condanna definitiva di alcuni tra i dirigenti di grado più alto del Viminale.
Per di più, il funzionario con cui lo scontro fu più diretto era il capo della Mobile genovese, Claudio Sanfilippo. Nel corso del dibattimento sul G8, incaricato da Zucca di procurare i tabulati delle telefonate fra i poliziotti, Sanfilippo riferiva che non si trovavano, così come le due molotov usate per costruire la falsa motivazione per l’irruzione della Celere nella scuola. Anche sulla scena dell’omicidio di Luciana Biggi, fece sapere il pubblico ministero, la squadra mobile della polizia aveva commesso parecchi errori.
È andata a finire in modo abbastanza paradossale, per quel delitto. Al processo, Zucca chiese 25 anni, ma Delfino fu assolto; e la sentenza fu confermata in appello. Per l’omicidio di Maria Antonietta Multari, Delfino è stato invece condannato a 16 anni e otto mesi, più cinque anni in una struttura psichiatrica perché gli è stata riconosciuta la semi-infermità mentale. È già a metà della pena, non dovrebbe mancare molto alla scarcerazione. Nell’attesa, il suo sguardo spiritato fissa il mondo dalla pagina Facebook “Convertirsi a Dio in compagnia di Luca Delfino”; non si sa se l’abbia aperta lui, o qualcun altro che si crede spiritoso.
Decidere quanta galera è giusto è già difficilissimo. Stabilire quanta è sufficiente a non rimettere in circolazione un pericolo pubblico, ancora di più. Annamaria Franzoni, condannata per l’omicidio di suo figlio a Cogne, ha scontato sei anni. I trent’anni inflitti in primo grado a Ruggero Jucker, che massacrò la fidanzata con un coltello da sushi, grazie all’appello e ai vari meccanismi di sconto si sono rattrappiti a meno di 11. Gli stessi che ha passato in cella Erika De Nardo, la ragazza di Novi Ligure che uccise la madre e il fratellino. Fra poco qualcuno potrebbe dover decidere se concedere permessi o altro a Donato Bilancia, visto che già da due anni ha superato la metà della pena. Sono scelte affidate a esseri umani, che possono sbagliare. Ma il prezzo dei loro errori, qualche volta, è davvero troppo alto.