Corriere della Sera, 15 maggio 2015
I due Facchinetti. Roby e Francesco si raccontano tra regali mancati, stanze d’albergo allagate, macchine finite fuori strada, uno schiaffo e tanti rimpianti. Ma ora che hanno imparato a non lasciarsi nulla dentro si sono ritrovati
«Da piccolo non sapevo bene che lavoro facesse mio padre, ma capivo che rendeva felici le persone». E così, quando Francesco Facchinetti pensava al suo futuro, l’unica cosa che contava per lui era riuscire, un giorno, a fare lo stesso. «Ma non avevo le idee chiare: l’obiettivo era fare contenti gli altri e quindi a sei anni pensavo che da grande avrei fatto o il Papa o il contadino perché dalla terra arrivava il cibo e per noi bergamaschi la tavola è un rito». Mentre parla, lo osserva con i suoi stessi occhi azzurri il papà, Roby. Roby Facchinetti dei Pooh, anzi. Non esattamente un genitore come un altro. Oggi si divertono, stanno bene assieme e dividono anche la poltrona di un talent show, The Voice.
Ma c’è stato un momento in cui Francesco si è vergognato di essere figlio di. «Da adolescente odiavo quello che mio padre simboleggiava – racconta —, non potevo sopportarlo. Come rifiuto massimo sono diventato un punkabbestia: nessuno poteva sapere che ero figlio di Roby Facchinetti. Mi avrebbero ammazzato di botte. Quindi ho fatto finta di non esserlo». Il papà se ne era accorto? «L’ho scoperto dopo. Che lui fosse un figlio particolare l’abbiamo capito subito: non stava mai fermo, ne faceva una e ne pensava altre mille. Ecco, come adesso: stiamo parlando e intanto ha la testa sul telefonino...».
Quindi si rivolge a lui: «Se stai facendo una cosa devi stare concentrato altrimenti rischi di fare male tutto». «Sono multitasking – risponde Francesco senza distogliere lo sguardo dallo schermo —. Tu sei abituato a fare una cosa per volta». «Sì, ma bene», replica divertito Roby. Che poi riprende: «Insomma, è sempre stato un ragazzo impegnativo per i genitori. Ma per fortuna, dopo una fase preoccupante, abbiamo capito che aveva assimilato dei valori importanti e che potevamo fidarci». «I miei genitori mi hanno insegnato una cosa bellissima, che è vivere. Se mi avessero educato vietandomi di fare certe cose, di sicuro le avrei fatte».
Non è difficile credergli se è vero che già da bambino rubava le chiavi della macchina del papà e la metteva in moto... «Una volta è finito in un bosco. Di marachelle ne faceva tante». Come una volta, a Napoli, in un albergo bellissimo. «Per la prima volta ho visto una Jacuzzi... perché, al contrario di quello che pensano, non ho abitato nel castello di Harry Potter e non avevo le Jacuzzi in casa. Comunque, l’ho riempita di acqua e schiuma e me ne sono andato: ho allagato la stanza». Eppure è stato un altro l’episodio – l’unico – in cui Roby ha perso la pazienza con il figlio («i miei fratelli credono che io sia il preferito»): «Lui si sveglia e canta. Anche adesso. Allora era piccolo ed eravamo in albergo. Era prima mattina e cantava ad alta voce. Lo imploravo di smettere e niente. Ha continuato nei corridoi, poi in ascensore e lì, senza che se lo aspettasse, gli ho dato uno schiaffo. Non era mai accaduto: non ha più parlato per mezz’ora. Mi sono sentito così in colpa che gli ho preso un regalo».
Così come gli schiaffi, anche i regali sembrano non essere stati frequentissimi nella famiglia Facchinetti. «Questo perché i figli non si accontentano mai», replica Roby. Francesco però ha un’altra versione: «Al di là delle apparenze, sono cresciuto in una situazione normale. I miei mi hanno insegnato a lavorare per ottenere le cose che volevo. È stata una fortuna». Tra quello che non ha avuto: il motorino, le vacanze pagate, la macchina. La sua prima è stata una Tipo rossa. E oggi che è a sua volta papà, si rivede simile al suo? «Lui è un rivoluzionario: ha dedicato la vita alla musica. Io sono diverso, non ho una passione così grande... ma so anche di non essere talentuoso come lui». Roby «è più artista, vive di correnti, è sempre in movimento, ama la vita fuori casa. Io sono più metodico, devo svegliarmi alla stessa ora, mangiare alla stessa ora...». Il padre sospira: «Insomma, non vedo che hai questa vita proprio così ordinata...». «Ecco, ci sono i preconcetti in famiglia, figurati fuori», riprende Francesco, certo di avere un’esistenza molto più normale di quella del padre.
Che, in parte, conferma: «Per me la musica è sempre stata tutto. Da ragazzino interrompevo le partite di pallone perché dovevo andare casa a suonare». Ha messo in secondo piano anche la sua famiglia? «Ho sempre cercato un equilibrio, ma forse ci sono riuscito solo ultimamente. Per anni ho vissuto con un grande squilibrio tra il mio lavoro e la famiglia. È un rammarico». Tornando indietro «avrei dovuto dire: ho messo al mondo dei figli, devo dare loro le giuste attenzioni. Invece il 90 per cento del mio tempo era per il lavoro. E oggi un po’ di rimpianto ce l’ho».
Deve aver fatto comunque un buon lavoro se, al netto di tutto, la stravaganza più grande del figlio sono stati i tatuaggi: «Il primo l’ho fatto a 18 anni, i miei non mi lasciavano». «Ci diceva di aver fatto un nuovo tatuaggio solo al ristorante: sapeva che lì non potevano volare le sedie». Poi gli osserva le braccia ricoperte di disegni e riflette: «A 70 anni magari gli verrà un ripensamento». «A me sembrate strani voi senza tatuaggi, io ormai non mi accorgo più di quanti ne ho». «Ma ce ne accorgiamo noi», replica Roby.
Tra loro funziona così, si dicono tutto. Hanno imparato «a non lasciarci nulla dentro e questo fa bene ai rapporti, non solo tra padre e figlio». E poco importa se c’è chi pensa che la vita sia facile in partenza con un padre così... «A parte la parentesi nell’adolescenza, sono sempre stato felice di essere il figlio di Roby Facchinetti: sono stato promosso perché portavo i suoi cd a scuola, quando non ero famoso in discoteca mi facevano entrare perché ero suo figlio. Diffido da chi dice che è difficile essere figlio di una persona famosa». Roby sorride: «Non pochi pensano che lui sia quello che è perché dietro c’è il padre. La verità è che io non ho mai fatto nulla per aiutarlo. Tutto quello che ha, lo deve alla sua fantasia».