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 2015  maggio 15 Venerdì calendario

Juventus-Barcellona è molto più che una finale di Champions, è un romanzo popolare. Due club che hanno fatto la storia del calcio e che dalla storia sono stati attraversati: il 6 giugno si incontrano a Berlino

Le due comete, bianconera e blaugrana, si incroceranno dunque la sera di sabato 6 giugno nel cielo di Berlino in un appuntamento di assoluta suggestione. Ma certo è difficile immaginare traiettorie più diverse. Passi per le origini, sfalsate di due soli anni. A Torino sono alcuni studenti liceali del Massimo d’Azeglio a inventarsi nel 1897 la Juventus, mentre in Catalogna nel ’99 tocca ad un gruppo di calciatori di origine svizzera e britannica: ma in fondo anche quei calciatori erano in gran parte studenti, così come i loro colleghi del d’Azeglio avevano velleità calciofile.

Connotazioni borghesi

È da lì in poi che il compasso comincia ad aprirsi e a disegnare parabole profondamente divergenti. Le connotazioni borghesi, per non dire nobiliari della Juventus, infatti, assumono una loro veste ufficiale e definitiva sin dal luglio del ’23 quando sale alla presidenza Edoardo Agnelli. Quelle popolari del Barcellona si radicalizzano una volta per sempre nel luglio del ’25, allorchè la tifoseria catalana al gran completo fischia l’inno nazionale per protesta contro la dittatura di Primo de Rivera. Lo stadio viene chiuso per 6 mesi, il presidente Gamper destituito. E non è che l’inizio di una lunghissima lotta di resistenza da un lato e di persecuzione dall’altra che culminerà il 6 agosto del ’36 nell’assassinio del presidente del Barca, Josep Sunyol, per mano delle truppe falangiste. Ma continuò poi, stemperandosi assai lentamente, anche oltre la guerra civile visto che il Barcellona rimase il simbolo dell’indipendentismo. E continua tuttora, in tempo di pace ma di tensioni separatiste latenti.
170 mila soci
Le strutture stesse dei due club sono diversissime. Da quasi un secolo la Juventus appartiene alla famiglia Agnelli ed è un’emanazione – in linguaggio moderno un brand – della principale industria del paese. Il Barcellona ha oltre 170mila soci azionisti che periodicamente eleggono un presidente, non sempre negli ultimi tempi con mano felice. Le statistiche più aggiornate, per quel che valgono, raccontano inoltre che il Barcellona è la squadra che vanta il maggior numero di tifosi in Europa, circa 60 milioni: seguono, a distanza Real Madrid e Manchester United, con la Juve attestata intorno ai 20. E ancora. La Juventus è una società esclusivamente calcistica: il Barcellona una polisportiva che comprende squadre di basket, rugby, volley e una miriade di discipline minori.
Da Sivori a Messi
Punti di contatto? Pochini. Compresi gli incroci nella storia delle coppe, quasi che la sorte abbia inteso evitare quanto più possibile di mettere a confronto realtà tanto diverse. Il più suggestivo, pur se a distanza, riguarda la dinastia dei tre piccoli mancini argentini che negli ultimi sessant’anni hanno segnato la storia del calcio. Oggi la tifoseria del Barça – non solo quella per la verità – delira per Leo Messi esattamente come nella seconda metà degli anni ’50 quella della Juve delirava per Omar Sivori. Nell’era del calcio-marketing non si contano le magliette con il nome e il numero di Messi, sempre quello, il celeberrimo 10. Ma allora che le magliette erano un bene prezioso, quanti di noi ragazzini, juventini e non, cominciammo a giocare coi calzettoni arrotolati sulle caviglie e senza parastinchi perché così faceva Sivori? Quando Messi rifiata, col risultato al sicuro, il gusto per il colpo di suola, il tunnel, lo sberleffo è lo stesso dell’ illustre antenato argentino: è diversa la velocità quando parte, si capisce, e se el Cabézon lo vedesse sgasare a quel modo sicuro che gli chiederebbe con la sua voce roca di marlboro dov’è tasto per accendere il motore. Ecco, il punto di giunzione è stato in un certo senso il fuoriclasse dell’età di mezzo, Diego Maradona. Che giocò nel Barcellona, ma che proprio Sivori aveva segnalato alla Juventus già quattro anni prima. Fu l’avvocato Agnelli in persona a spiegare ad un altro illustre juventino, non meno rammaricato di lui, che a Mirafiori un acquisto così costoso avrebbe nuociuto alla già precaria pax sindacale. Il rammaricato era Luciano Lama, segretario della CGIL.
Idoli degli immigrati
D’altra parte erano già state ragioni di strategia aziendale a suggerire negli anni ’60 la precedenza a giovani talenti di origine meridionale. Gli immigrati giunti in massa in quegli anni a Torino e nella cintura adottarono a propri idoli Pietruzzu Anastasi, proveniente dal Varese ma catanese purosangue, e subito dopo il leccese Franco Causio. Non furono gli unici. Furono però i più bravi a trasmettere agli operai della Fiat di fede bianconera un senso di appartenenza che non poteva che giovare sia all’azienda sia alla società. Non solo. In quegli anni era tornato all’onor del mondo anche il Torino, la cui tifoseria aveva una connotazione più territoriale: logico dunque che la Juventus si comportasse anche dal punto di vista degli acquisti secondo l’etichetta di allora, di «fidanzata d’Italia».
Effetto Olanda
Il Barça nel frattempo aveva scelto di olandesizzarsi. Dapprima affidandosi alla guida tecnica di Rinus Michels, il guru della rivoluzione del calcio totale prima all’Ajax e poi nella Nazionale olandese. Poi a distanza di due anni ingaggiando anche Johann Crujiff, l’interprete più straordinario di quella svolta epocale. Fu la mossa che permise ai catalani di tornare a prevalere sul Real che negli anni precedenti aveva preso nettamente il sopravvento: ed è durata nel tempo, se è vero che il grande ciclo di Pep Guardiola è stato preceduto da quello, non altrettanto glorioso ma certamente brillante, affidato a Frank Rjikaard.
Per chiudere questo breve viaggio alla riscoperta di due realtà antitetiche, ci si potrebbe domandare che cosa ciascuno dei due club potrebbe rubare all’altro. Il Barcellona certamente la saggezza economico-finanziaria della Juventus, perché è vero che dispone di risorse assai più cospicue, è vero che non è mai arrivato ai 100 demenziali milioni per Bale di Florentino Perez, ma è vero anche che acquistare a molto e rivendere a poco è una discreta specialità della casa. La Juventus altrettanto certamente l’organizzazione strutturale, e prima ancora concettuale, della Masìa. Trattasi della sede del vivaio barcellonista, una sorta di casa colonica del ‘700 che un tempo era in aperta campagna e oggi alla periferia ovest della città. Lì sono cresciuti i Piquè e i Busquets, i Fabregas e i Pedro, ma soprattutto i tre nanerottoli a nome Messi, Xavi e Iniesta. Allevati a suon di tecnica e di carezze al pallone nel calcio di dieci anni fa: dove e quando pareva che il talento fosse un optional fine a sé stesso, e senza il fisico di Ibra o di Vieira non si andasse da nessuna parte.