Corriere della Sera, 15 maggio 2015
Kabul, la città di muraglioni. Da una parte ci sono gli stranieri, dall’altra vivono gli afghani. Sui telefonini di operatori umanitari, diplomatici e giornalisti arrivano gli allarmi delle agenzie di sicurezza che i datori di lavoro finanziano (soprattutto) per tenere a bada i premi assicurativi. Margherita Stancati corrispondente del Wall Street Journal: «Alla paura si fa l’abitudine e poi la dimentichi. Devi solo pensare se ne vale la pena e per me, in un momento così importante per l’Afghanistan, la risposta è ancora sì»
Non ci sono barriere, hesco bastion, metal detector, security advisor, guardie e perquisizioni che bastino. Se i sovietici avevano tagliato gli alberi secolari che portavano al Palazzo Reale di Darul Aman per eliminare i nascondigli degli attentatori, gli occidentali hanno trasformato decine di strade in grigi canyon sormontati da filo spinato. Kabul è diventata una città di muraglioni, da una parte gli stranieri, dall’altra gli afghani. La città è viva, sovraffollata, con spiedini e neon colorati per matrimoni e nascite. Ma off limits per gli stranieri. Sui loro telefonini arrivano gli allarmi delle agenzie di sicurezza che i datori di lavoro finanziano (soprattutto) per tenere a bada i premi assicurativi. Servono? Forse no. Anche perché il messaggio si ripete sino alla noia: «Uscite il meno possibile, rimanete nei vostri compound, evitate i luoghi affollati, non camminate mai a piedi, non annunciate a nessuno i vostri indispensabili spostamenti». C’è l’agenzia che vieta di «recarsi in ambasciata, obbiettivo di possibili attacchi» e quella che nello stesso giorno «sconsiglia qualsiasi spostamento che non sia verso le rispettive ambasciate». Kabul blindata, svuotata di stranieri, sempre più abbandonata a se stessa.
Alberto Cairo ha visto tutto. L’Afghanistan della guerra civile, quello dei talebani, quello del boom economico seguito alla commozione mondiale per la scoperta di un Paese-macchina del tempo precipitato nel medioevo. «La sicurezza è indubbiamente molto diminuita – racconta con un collegamento di fortuna da Lashkar Gah, nel sud del Paese —. È avvenuto piano piano e in qualche modo ci siamo abituati. Dopo l’attacco al Park Hotel, l’ordine è di stare più cauti del solito, ma in realtà non cambia nulla perché più cauti di così non si può». Cairo, responsabile dei progetti della Croce Rossa Internazionale, continua a guidare da solo e a perseguire i suoi progetti visionari. L’ultimo, un torneo di pallacanestro in carrozzina. Per maschi e femmine. Ma è, da quarant’anni, una mosca bianca.
«Ormai i civili italiani a Kabul sono appena un centinaio su una popolazione di stranieri che si aggira sui due tre mila – spiega l’ambasciatore Luciano Pezzotti —. Siamo soprattutto diplomatici, funzionari delle varie agenzie Onu e della Banca mondiale. Le Ong vanno esaurendosi. E tutti fanno vita da reclusi. Auto blindate e massima sicurezza». Fino all’inizio del 2014 i diplomatici e i cooperanti italiani vivevano in case afghane. Con la guardia armata alla porta, ma ogni tanto l’aquilone dei bambini del quartiere cadeva in giardino. Neppure i sanitari di Emergency che gestiscono un ospedale famoso e rispettato fanno un passo in più della distanza tra casa e lavoro: più o meno 15 metri. «L’attentato al Ristorante Libanese è stato il giro di boa» sostiene Pezzotti. Il messaggio talebano («nessuno straniero è benvenuto») è arrivato chiaro e ha fatto girare i chiavistelli. Il quartiere italiano comprende ambasciata, residenza e palazzina della Cooperazione che di giorno è ufficio e di notte è dormitorio. Vicini di casa ora sono i soldati Nato di Camp Arena.
Ha cambiato casa anche l’unica giornalista italiana residente a Kabul da due anni. È Margherita Stancati corrispondente del Wall Street Journal. Ora vive nella stessa via super protetta dell’ambasciata britannica. «Alla paura si fa l’abitudine e poi la dimentichi. Devi solo pensare se ne vale la pena e per me, in un momento così importante per l’Afghanistan, la risposta è ancora sì».
Anche lei una mosca bianca.